mercoledì 7 gennaio 2015

Presentazione

L'autore mentre firma una copia fresca di stampa.

Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi è ora in rete, gratuito, tutti possono dunque leggere le raccapriccianti imprese di Saul Bartezzaghi, scrittore e serial killer.
   Il testo è quello del file originale che mandai all’editore (Edizioni Progetto Cultura) e che venne pubblicato nel luglio 2007; sono state sicuramente apportate alcune correzioni e/o aggiunte all'opera finale passata in stampa, ma credo che al 95% il testo corrisponda a quello uscito in formato cartaceo alcuni anni fa.
   Nel libro era presente anche una lunga presentazione firmata da Sandro Piluso. Ne estrapolo solo una parte che aggiungo di seguito.
 
   “Il libro di Manservisi suscita in noi una serie di domande, suggestioni, interrogativi sul senso della nostra esistenza. Merito dell’autore è aver raccolto il tutto nel breve spazio di nemmeno un centinaio di pagine – pensare a quanti “mattoni” abbiamo davanti ai nostri occhi e provocano un’unica domanda: perché mai sono stati pubblicati – con uno stile freddo, razionale, analitico, in apparente contraddizione con la bizzarra ambientazione. Ma più che di contraddizione è giusto parlare di contrappunto, un’opzione che permette al testo di ergersi e schivare il rischio della banalità. Per le tematiche affrontate, e per come sono trattate, si può parlare a tutti gli effetti di un’opera d’arte. Oggetto creativo che si spinge al di là di qualsiasi steccato o limite imposto, a partire dall'appartenenza: non è catalogabile secondo i canoni tradizionali di uno specifico genere letterario. Li racchiude un po’ tutti in sé: giallo, romanzo di formazione, reportage giornalistico. […]” 

martedì 6 gennaio 2015

Capitoli finali.




26


I tre ragazzi si erano ritrovati al solito bar per l’aperitivo del sabato sera. Bevevano cercando di carburare il più possibile per non sfigurare in mezzo alle varie compagnie di maschi standardizzati e femmine appariscenti, amalgamandosi alla perfezione in quella crème di vacuità. Galleggiavano tranquilli nel mare di discorsi futili che solitamente fanno da sottofondo all’happy hour modaiolo, ma una volta finita la carburazione e svuotatosi il bar, era sopraggiunta la noia, cosicché Matteo, il leader del gruppetto, aveva proposto una capatina al cimitero.
   Passate da poco le 23 di sabato 13 maggio, Matteo, Gianni e Sandrino, ventenni pisani, stavano rompendo e imbrattando con vernice spray le lapidi del camposanto di Pontedera, sfogando con il vandalismo più cretino le loro frustrazioni, nell’impossibile tentativo di colmare il vuoto abissale che avevano dentro.
   A un certo punto, Matteo e Sandrino videro che Gianni era rimasto paralizzato ad osservare qualcosa alle loro spalle. Si voltarono lentamente e lo videro…
   Gennaro Gargiulo era impalato di fianco a una lapide. Il tubo usato era conficcato nel terreno e passando per l’ano della povera vittima gli fuoriusciva dalla bocca. La gabbia toracica gli era stata aperta segando a metà lo sterno e al suo interno, asportati polmoni e cuore, era posizionato un teschio con due ceri accesi inseriti nelle cavità oculari. Le gambe nude erano tagliuzzate in verticale con tagli paralleli profondi e regolari che andavano dagli inguini alle caviglie.
   “Ero ancora lì al cimitero quando vidi arrivare quei tre sfigatelli” spiegò Saul. “Avevo appena finito la mia opera e per loro fortuna la gastrite era già passata, altrimenti è probabile che avrei sistemato anche loro dopo aver visto cosa stavano combinando. Li osservai di nascosto, poi quando si accorsero di Gargiulo impalato, me la filai. Credo se la siano data a gambe anche loro poco dopo, e per non dover sopportare il peso di quella scoperta decisero di andare alla prima stazione dei carabinieri che incontrarono. Raccontarono che erano andati al cimitero solo per provare l’ebbrezza di osservare le tombe illuminate nella notte: non volevano fare niente di male e si erano accorti subito del vandalismo subito dalle lapidi. In un secondo momento avevano scoperto il cadavere di Gennaro Gargiulo.
“I giornali attribuirino l’ennesimo omicidio al Pittore e iniziò così la gara tra i luminari della psiche alla ricerca del movente che aveva spinto il mostro non solo a uccidere, ma anche a distruggere tombe. Sinceramente mi sarebbe dispiaciuto prendere la colpa per una cosa così stupida; per fortuna gli inquirenti fecero presto chiarezza e i tre ragazzi crollarono in una confessione simultanea.”
   “Se non sbaglio Gargiulo era un finanziere. Cosa ti aveva fatto per scatenare la gastrite?”
   “Sì, Gennaro Gargiulo era un finanziere, conosciuto in tutta Pisa e dintorni per la sua intransigenza. Nel ’92 ero rientrato da poco in Italia quando mi fermò per un controllo stradale. Avevo con me pochi grammi di marijuana, la trovò nascosta sotto un coprisedile e mi portò in caserma. Lì mi sottopose a un duro interrogatorio, credendo forse che fossi uno spacciatore: di certo il mio look trasandato non mi aiutava! Mi insultò, mi derise, mi smontò – danneggiandola – la macchina per vedere se nascondevo altra droga. Prima di lasciarmi andare, disse: Ora dovrai presentarti in prefettura per un colloquio con un’assistente sociale, te la cavi quindi con una piccola ammonizione purtroppo… I fricchettoni del cazzo come te dovrebbero essere sbattuti in gabbia a mangiare scarafaggi per anni!
“In quel momento non mi capacitavo di tanto livore; solo tempo dopo venni a sapere che suo figlio era morto di overdose. Povero Gargiulo… un altro di quei poveri stronzi che pensano che la colpa sia della droga e non del Sistema o addirittura loro! Ad ogni modo la mia gastrite non ebbe pietà del dramma filiale del finanziere. Fu così che molti anni dopo realizzai la mia migliore opera d’arte.”
   Di questa conservava cinque foto, il cui commento non necessita dell’uso di parole!



27


Nota postuma: questo capitolo è stato oggetto di forti contrasti interiori, ma ribadendo il discorso che qui l’editor sono io, alla fine ho deciso di inserirlo. Giordano Fagioli direbbe probabilmente che “non ci sta a dire un cazzo!”: in parte concordo. Ma i libri, come la vita – e sto per dire la banalità del secolo – sono fatti anche di capitoli “apparentemente” inutili. Apparentemente! Se col tempo si impara la saggezza e l’arte di leggere (i dettagli) si riuscirà ad apprezzare anche il piccolo neo. Anzi, in molti casi il neo diventa fonte di grande fascino. Ho già blaterato troppo…


Perché Saul aveva investigato per conto suo sull’infedeltà di Barbara e nel bel mezzo della cronistoria della sua attività di Pittore mi aveva spiattellato in faccia il tradimento? PERCHE’? Me lo chiedevo nei momenti di pausa, rari, che il suo racconto concedeva.
   Non molto tempo fa, ho letto queste parole in un libro intitolato “La Grande Inculata”, di un autore emergente a me caro:

Sapere, sapere, sapere… viviamo per sapere.
  Ma sapere cosa?
Anche il più intelligente degli uomini,
il più grande filosofo o intellettuale,
l’artista più sublime,
morirà senza sapere.
Chiunque creda di sapere,
arriverà a esalare l’ultimo respiro
senza in realtà aver mai saputo nulla.

   Quelle poche righe mi piacquero tanto che le scrissi su un foglio e le incorniciai in un quadretto che fino a qualche tempo fa campeggiava sul muro dietro la mia scrivania alla Cisco Ribelle. Sono l’emblema dell’impossibile lotta dell’uomo alla ricerca di un Senso metafisico della vita.
   Ecco, durante una di quelle pause, ebbi la consapevolezza che se avessi continuato a chiedermi “perché?” avrei seriamente rischiato di impazzire. Valeva la pena correre il rischio?
   Perché? Perché? Perché? A quanti
“PERCHE’?”
bisogna rispondere prima di accendere una piccola luce nel buio?



28


“… e poi è finito anche il tempo di uccidere. Come e perché è finito te lo spiegherò tra non molto, intanto sappi che l’ultima vittima è stata il mio ex amico Michele Bettarini, ucciso una settimana dopo Gargiulo.
“Se questo omicidio non ha messo gli inquirenti sulle mie tracce, credo che non mi prenderanno più, ma ormai ha poca importanza…”
   “Vuoi dire che non ti importa di passare il resto della tua vita dietro le sbarre?”
   “Esattamente, non mi importa. Ti spiegherò anche questo, prima però fammi raccontare di Michele…
“Tra le tante sfortune che ho avuto nella vita, c’è stata anche quella di non avere mai avuto un amico. Forse è stata anche colpa mia, del mio carattere, ma ho conosciuto gente mediocre e superficiale in materia di rapporti umani, tanto che sono giunto a ritenere l’amicizia un sentimento ipocrita, falso. Prima che si sviluppasse in me questo pessimismo, c’era però lui, Michele Bettarini. Siamo cresciuti insieme: era il mio compagno di giochi d’infanzia e fino alle scuole superiori siamo sempre stati compagni di banco. Avevamo un ottimo feeling anche perché sembrava diverso dagli altri pecoroni del gregge, più sensibile e con una maturità da persona più grande della sua età. Mi fidavo ciecamente di lui, lo rispettavo e stimavo molto, e la cosa era reciproca.
“Verso la fine del quarto anno di liceo, si mise insieme a una nostra compagna di classe – Beatrice Virgili – di cui anch’io ero invaghito. Non ero geloso però, anzi, ero contento per lui. Un giorno, uno dei primi giorni di scuola del quinto e ultimo anno, mi chiamò in disparte e con una faccia di bronzo imperturbabile, come se neanche ci conoscessimo da una vita, mi disse: “Scusa Saul, ma preferirei non avere più niente a che fare con te. Continuare a frequentarti significherebbe la mia morte sociale, sia agli occhi di Bea sia agli occhi degli altri. Perdonami…”. Rimasi impietrito. Anni di amicizia che credevo vera e sincera venivano cestinati così, senza un motivo logico, o forse per un motivo fin troppo logico: se stai con lo sfigato sei uno sfigato! Triste assioma spesso causa di emarginazione già tra i bambini.
“Addirittura si inserì perfettamente nella compagnia di bulletti che mi prendeva spesso in mezzo e diventò uno dei più feroci nel farmi gli scherzi. Nel giro di pochi mesi il nostro rapporto cambiò radicalmente, tanto che Michele mi rivolgeva la parola solo per prendermi in giro davanti a tutti. Divenne il mio aguzzino per tutto l’ultimo anno trascorso al liceo classico “Mario Sciaccaluga” di Pisa.”
   “Povero Saul!” esclamai immaginandomi un Saul adolescente esposto al pubblico ludibrio.
   “Dispiace solo che una ventina d’anni più tardi si era fatto una famiglia… Non con Beatrice però: la loro storia finì un paio d’anni dopo la fine del liceo. Ora era sposato con una matrona più vecchia di lui di dieci anni e aveva due figli di otto e dieci anni.
“L’ho aspettato sotto casa al ritorno dal lavoro. Era diventato quello che sospettavo, un triste travet senza pretese in un ufficio di non ricordo cosa. Stava per infilare le chiavi nella porta d’ingresso quando lo chiamai. “Michele, ti ricordi di me?!” gli dissi. “Saul!” esclamò. Quel che vidi nel suo sguardo per un attimo mi bloccò; forse era autosuggestione, ma nei suoi occhi lessi qualcosa che interpretai come “Sapevo che eri tu il Pittore! Sapevo che prima o poi saresti arrivato!”. Sparai un colpo alla nuca e uno al cuore.”
   Fece una lunga pausa, poi mi chiese se avevo ancora della birra in frigo. Andai a prendere le ultime due Peroni rimaste e tornai a sedermi di fianco a lui.
   “Chissà se io e te saremmo potuti diventare grandi amici se fossimo cresciuti insieme!?” si chiese con lo sguardo malinconico perso nel vuoto.
   Accese una sigaretta, bevve una lunga sorsata di birra e dopo aver trattenuto a stento un rutto, disse:
   “Sai Pippo, ucciso Michele, per la prima volta piansi dopo aver placato la gastrite.”



29


Il pomeriggio scivolava veloce verso il crepuscolo. Il frigo era vuoto e il mio stomaco pure, così chiesi a Saul di interrompere un momento la narrazione per scendere al negozio pakistano di alimentari sotto casa a comprare una confezione di birre e qualcosa da mettere sotto i denti. Tornai dopo mezz’ora.
   “Avevo dimenticato che oggi è Santo Stefano e i negozi sono chiusi” dissi rincasando. “Per fortuna il vicino della porta qui a lato – che fa il barista – ha sempre qualche birra di “contrabbando” da passarmi nei momenti di bisogno. Se hai fame però, devi accontentarti di sgranocchiare delle patatine in sacchetto o in alternativa assaggiare un minestrone di verdure che mi è avanzato nel freezer.”
   “Grazie, non ho fame.”
   “Ha iniziato a nevicare sai?!”
   Alla notizia Saul si alzò dal divano e andò alla finestra. Grossi fiocchi scendevano dal cielo e presto avrebbero ricoperto strade e tetti, prendendo alla sprovvista i mezzi spargisale e spazzaneve.
   “Che bello!” esclamò. “Mi emoziono sempre quando vedo nevicare. La neve mi fa tornare indietro a quando ancora credevo nelle persone e avevo dei sogni!”
   Quell’uomo mi sorprendeva continuamente; mentre era lì alla finestra che guardava trasognato la città coprirsi di bianco, ebbi la certezza che una volta uscito dall’appartamento, la mia vita sarebbe stata completamente diversa.
   “Che ne dici di stappare la birra della staffa?” disse tornando ad accomodarsi sul divano.
   Lo accontentai e mi sedetti al suo fianco.



30


“Ricordo benissimo il giorno che ha cambiato la mia vita senza più possibilità di tornare indietro o prendere altre strade. Era lunedì 5 giugno di quest’anno e mi trovavo al liceo “Mario Sciaccaluga”. Sì Pippo caro, il mio liceo classico. Ero stato invitato dal preside Felice Gonfiantini – che conoscevo da anni per essere stato il mio professore di italiano, tra l’altro molto apprezzato – a tenere un reading davanti a tutte e dodici le classi che ospitava la struttura scolastica, trovandomi di fronte centinaia di ragazzi dai quattordici ai diciotto vent’anni.
“All’inizio ero stato riluttante all’idea, ma il vecchio professor Gonfiantini mi aveva convinto con il suo garbo e la sua simpatia. Per molti sei un mito caro Saul. Sei il sogno diventato realtà, colui che con l’impegno e la passione è riuscito a emergere dal grigiore generale. Sono molto orgoglioso di essere stato il tuo professore di italiano; la tua presenza potrà accendere la miccia che farà deflagrare definitivamente l’amore per la letteratura che ognuno di questi ragazzi fagocitati dalla modernità dovrebbe avere. Così mi disse.
“C’era un entusiasmo indescrivibile nella palestra della scuola dove si teneva il reading, accentuato probabilmente dalle imminenti vacanze estive. Quando feci il mio ingresso, i ragazzi mi accolsero con una standing ovation accompagnata da un coro: “Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no…” ripetevano. Ero sorpreso e quasi imbarazzato da tanto calore… (Calore che avrei voluto provare in ben altre situazioni nella vita…) Molti avevano con sé una copia di “Sbronze road”, o di “Ulcera”, o di entrambi i best seller, da farmi autografare al termine dell’intervento.
“Gonfiantini placò a stento l’euforia con reiterati “per favore ragazzi” sibilati al microfono. Al tavolo, sistemato sul lato ovest della palestra, eravamo seduti io, Gonfiantini e due professoresse, credo una di latino e una di italiano. Era la prima volta che parlavo davanti a una folla di soli giovani e non avevo preparato nessun discorso, così cercai di improvvisare partendo – dopo il preludio del preside – col raccontare alcuni aneddoti della mia trafila scolastica allo “Sciaccaluga”. Nonostante i ricordi spiacevoli soverchiassero quelli piacevoli, qualche simpatica storiella nostalgica l’avevo anch’io nel repertorio. Parlai poi dell’importanza di fare esperienze di viaggio, inteso non solo come viaggio fisico ma anche mentale e spirituale; di fare le cose con impegno e passione; di affinare il proprio talento; di non cadere nelle imboscate del Sistema; di mantenere la mente elastica con la lettura; di saper leggere non solo i libri ma anche gli ambienti e le persone; di saper ascoltare il silenzio; di essere liberi, indipendenti e curiosi; di non giudicare senza prima conoscere, e anche dopo aver conosciuto di stare molto attenti ai giudizi; di amare… Forse nel complesso mi lasciai andare a un filo di retorica, ma riuscii a non annoiare nessuno con la mia semplice filosofia. Lessi alcune pagine di “Sbronze road” e di “Ulcera”, persino un paio di paragrafi di “Se”; venne infine il momento, introdotto da Gonfiantini, delle domande. Mentre rispondevo, all’improvviso… il black out! Non credo fosse colpa delle domande: i ragazzi ponevano quesiti mediamente  interessanti, almeno non banali, fatto sta che la capacità che posseggo di leggere le anime si impossessò di me. Avvenne tutto in pochi secondi: vidi quei giovani attraverso il filtro del mio “potere”, della mia “lente d’ingrandimento animale” e… vidi il Vuoto. Le loro anime erano spente, buie, morte. Qualcuna splendeva, certo. Di queste rare perle ne intravidi forse una mezza dozzina tra i duecentocinquanta ragazzi presenti. Quella visione mi diede la consapevolezza della sconfitta.”
   “Sconfitta?” lo interruppi. “Di chi? Di cosa?”
   “Della società, della famiglia, dell’istituzione scolastica. E mia, in quanto singolo individuo, pertanto pedina debolissima sulla scacchiera, vittima sacrificale in una battaglia persa in partenza.”
   Fece una pausa cercando una sigaretta, ma notando che il pacchetto era vuoto, lo accartocciò e proseguì:
   “Cosa potevo fare per liberarmi dalle catene e allontanare quel senso di annientamento? Scrivere serviva a poco, infatti avevo smesso. Per chi scrivere poi? Cosa scrivi quando la lettura diventa un hobby per un’elite prossima all’estinzione? I giovani oggi non leggono… Intendiamoci: leggono, ma non sanno quel che leggono. Il progresso sta uccidendo l’intelligenza e anche la cultura. “
   Bevve un sorso di birra riflettendo sul discorso che stava imbastendo. Proseguì:
   “Anni fa mi sembra di averti detto che non si scrive per se stessi (nemmeno i diari, aggiungo ora, si scrivono per se stessi), bensì per la Figa. In un certo senso scherzavo, ma ero anche molto serio. Metaforicamente parlando, se la Figa rappresenta la Vita, si scrive per lasciare un segno nella vita. Ma se la Figa è irrimediabilmente frigida e sterile… Se l’uomo è sempre meno individuo pensante e sempre più massa confusa, e in quanto massa, priva di identità, SCRIVERE E’ COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO!”
   Altro sorso di birra e altra pausa.
   “E uccidere? Uguale. Capivo in quegli istanti che nemmeno uccidere aveva un senso nella Grande Guerra contro l’imbecillità umana. Serviva solo a me come palliativo momentaneo ma non serviva certo ad accendere anime spente. Che il Destino faccia il suo corso allora! Per Destino non intendo l’ipotetica mano di un Dio che decide le nostre mosse, bada bene! Tu non lo vedi, ma c’è un sentiero invisibile che percorriamo, un sentiero tracciato addirittura prima del nostro concepimento e che prosegue anche dopo la nostra morte. Il mio Destino mi porta ora a bussare alla porta dell’Infinito.
“Finito il reading uscii dal liceo Mario Sciaccaluga di Pisa totalmente spossato e con un dolore di stomaco terribile, come mai avevo avuto. Portavo con me una decisione: avrei lasciato, come mi aveva ammonito la Voce anni addietro, che il dolore si trasformasse in tumore. Dal 5 giugno la gastrite sta velocemente evolvendo in cancro. Ho semplicemente seguito il sentiero e adesso morirò, conscio di lasciare un mondo vuoto, sicuramente più vuoto di quel mondo che c’è o non c’è dopo che avrò superato il “momento supremo”. Aspetto quel momento con serenità. Mi sono arreso dopo aver massacrato i miei fantasmi, ma i fantasmi non muoiono.”



31


Come un sipario immaginario il silenzio calò su di noi. Saul si alzò dal divano e mi tese la mano; io feci lo stesso ma anziché dargli la mano ebbi l’impulso di abbracciarlo. Ci abbracciammo.
   “Allora… addio!” dissi.
   “Addio!”
   Addio, le ultime parole che Saul Bartezzaghi pronunciò. Prima di scendere le scale che lo avrebbero portato nell’androne e quindi in strada, si girò un’ultima volta, mi sorrise e strizzandomi l’occhio si accomiatò per sempre da me.
   Mi affacciai alla finestra e lo vidi attraversare via Zamboni ricoperta dalla neve. Nevicava ancora copiosamente; osservai le orme che si era lasciato alle spalle sparire velocemente, ricoperte da nuovi strati di bianco.
   Mi coricai supino sul divano, frastornato da quelle ventiquattr’ore kafkiane passate in compagnia del Pittore. Erano le 19 e qualche minuto.
   “E adesso?” mi chiesi ad alta voce.
   Poco dopo mi addormentai e fu un sonno travagliato pieno di sogni.



32


Il giorno dopo sarei dovuto partire con Barbara per Parigi. Partii solo.
   La notte di San Silvestro ero agli Champs-Elysées a provare di divertirmi; nonostante avessi bevuto parecchio, non ero per nulla euforico. Intorno a me c’erano migliaia di persone, eppure non mi ero mai sentito così solo in vita mia. Sentivo la mancanza di qualcuno e quel qualcuno non era Barbara. Possibile invece che quel qualcuno fosse Saul? Possibile sentirsi orfani di uno che squarta il corpo di un altro essere umano con la stessa facilità con cui scrive il capitolo di un libro? Ebbene sì, Saul Bartezzaghi mi mancava, ma Saul Bartezzaghi era morto quel giorno stesso. Lo venni a sapere il primo gennaio sbirciando i titoli dei giornali davanti a un’edicola. Era molto famoso in Francia, i suoi libri avevano avuto più fortuna che in Italia, e “le Figaro” gli dedicava un trafiletto con foto in copertina. Rimasi basito, anche perché pochi giorni prima il suo aspetto non sembrava quello di un malato terminale; non pensavo che il tumore fosse in un così avanzato stadio.
   Comprai il giornale e andai a sedermi su una panchina lungo la Senna, poco distante da dove avevo l’albergo. Non conoscendo il francese, mi limitai ad osservare la foto che ritraeva un Saul più giovane in una posa profetica: stringeva una penna nel pugno come fosse un coltello e nell’altra mano teneva un foglio, pronto per essere… assassinato!
   Come ho detto non parlo francese ma il titolo che accompagnava la foto era facile da tradurre:

L’ECRIVAIN BARTEZZAGHI, CREATEUR DE “ULCERE”, EST MORT

   Sorrisi per l’ironia del titolo e della foto. Mi alzai, appallottolai il giornale e lo gettai in un cestino. Mentre mi dirigevo verso est, costeggiando la Senna, per andare in albergo a rifare le valigie, dissi fra me e me:
   “Solo io conosco il Pittore.”
   Il giorno dopo avevo l’aereo per tornare a casa, ma non tornai a casa. Quello che ho fatto dopo essere stato a Parigi andrebbe inserito dal capitolo 33 in poi, ma il capitolo 33 non c’è!, perché, credetemi sulla parola, tutto ciò che viene dopo è indiscutibilmente un’altra storia.



RINGRAZIAMENTI



Un sincero grazie a tutte queste persone, per aver contribuito direttamente o indirettamente a liberarmi l’anima esulcerando il corpo: R. Bertocchi, F. Aglieri, Oreste F., don Oreste B., il signor Gardini, Elena G., Tom McNamara, Giampiero Dellanima, V. Baldi, E. Corrente, Michele B., P. Bellicapelli e W. Roscio della GdF di Vasto (CH), Barbara S. Per altri motivi rigranzio invece: Alberto Lanzoni, Paolo W., Massimo Bonazzi, Nicola Rizzoli, il Dottore, mamma, papà, Giorgia, Giulia e tutte le persone care che non sono più vive fisicamente. Ah, dimenticavo: grazie anche a quell’anonimo che scrisse su una panchina “La vita è bella. E’ il mondo degli uomini che fa schifo.”

Capitoli da 21 a 25.

21


Non so come si sentisse Saul, ma io ero abbastanza ubriaco. Mezzanotte era da poco passata e tra vino, birra e whisky, di litri di alcol ne avevamo ingollati parecchi.
   “Se vuoi continuiamo domani” mi disse Saul vedendo che accusavo il colpo.
    “Hei amico, io domani ho da fare. Dopodomani vado a Parigi con la mia Babi a trascorrere the last day of the year… Oh yeah!”
   Non mi dispiaceva affatto aver raggiunto quel livello di alterazione alcolica, mi rilassava e mi aiutava a sopportare quella situazione pazzesca.
   “Vuoi dire quella gran troia della tua Babi!?”
   Credetti di aver capito male.
   “Come dici scusa?”
   “Babi… quella gran troia!”
   E’ incredibile la forza delle parole. Arrivano addirittura dove la scienza, la medicina, la materia non può arrivare. In questo caso fecero magicamente scomparire l’ebbrezza in un batter di ciglia.
   “Come ti permetti?”
   “Guarda qua!”
   Mi mostrò una decina di fotografie che ritraevano Barbara insieme al mio amico Alberto in giro per Parma, abbracciati. In un paio si baciavano come due innamorati appassionati.
   “E queste chi cazzo te le ha date?”
   “Mie! Fatte da me con la mia super professionale Nikon F-301. E sviluppate come tutte le atre nel mio bagno trasformato in camera oscura.”
   Come farebbe a questo punto uno scrittore a descrivere le sensazioni che provai in quel momento? Credo che farebbe molta fatica anche un George Orwell o un Dino Buzzati, tanto per citare due dei miei autori preferiti. Già prima di quelle foto il quadro era assurdo, adesso si arrivava al limite della tollerabilità umana, superata la quale la sanità mentale vacilla. Rischiavo un crollo emotivo. Girai e rigirai tra le dite le foto per un tempo interminabile, in silenzio.
   “Quando le hai scattate?”
   “Dieci giorni fa circa.”
   “Perché?”
   “Capita. Forse tra te e Barbara non c’era più…”
   “No! Voglio sapere perché le hai scattate!”
   “Studio Filippo! La mia vita è una continua ricerca, un complesso studio delle emozioni e delle reazioni umane. Ricordi ancora quando dicevo che usavo le persone per trovare ispirazione?”
   “Vaffanculo! A che cazzo ti serve l’ispirazione se non scrivi neanche più!?”
   “Non è per me l‘ispirazione. E’ per te!”
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!
E’ PER TE!


Per poco non persi i sensi. Stordito e stremato mi alzai e mi diressi verso la porta dell’ingresso, aspettandomi di essere richiamato, bloccato, o persino sparato, invece Saul mi lasciò andare.
   “Ti aspetto qui, non fare tardi” urlò dalla camera prima che uscissi.



22


Qui sorge un dilemma. Tagliare o non tagliare? Scrivere o non scrivere quello che ho fatto una volta uscito dal mio appartamento di via Zamboni? E’ importante ai fini dell’intreccio? Giunto a questo punto, è probabile che il lettore voglia SAPERE, ma facciamo un esperimento: diamo fiducia alle sue capacità immaginative. Lo stesso Saul, in un’intervista rilasciata a un giornalista di “Repubblica”, riferendosi a vari racconti inseriti in “Sbronze road”, diceva: “Ho fatto largo uso di ellissi perché credo sia uno stimolo per il lettore; gli permette di immaginare, di attivare ulteriormente la fantasia.”
   Ecco qui la mia ellissi, dunque. Qualcuno penserà che sia una scusa per non riferire un fatto personale estremamente doloroso. Qualcun altro sospetterà fossi troppo ubriaco per ricordare e quindi riferire cosa accadde. Tutto può essere. Resta il fatto che su questa pagina adotto l’”effetto dissolvenza”… Lascio però due o tre tracce: A) Mi recai immediatamente a casa di Alberto (C’era? Non c’era? Fate voi!); B) Telefonai a Barbara (Fu una telefonata lunga?); C) …



23


Verso le tre di mattina tornai a casa ubriaco fradicio (Qualcuno di voi ha immaginato bene!). Quasi non ricordavo di avere un ospite. Stava cucinando della carne che conservavo in freezer dentro una padella.
   “Forse è meglio se metti sotto i denti qualcosa: assorbirà un po’ di tutto quell’alcol che hai mandato giù” disse senza alzare lo sguardo dai fornelli.
   “Vaffanculo maniaco omicida di merda! Non voglio niente preparato dalle tue mani grondanti sangue” ribattei ferocemente, ma subito sedetti al tavolo del cucinotto.
   “Non ti fa venire l’acquolina questo profumino? Su, mangia! E’ una mia specialità. Devi sapere che sono un discreto cuoco.”
   “Scommetto che sei anche un cannibale, eh!?”
   “Sono pazzo, sono un assassino, ma non sono ancora diventato antropofago.”
   Mi servì un piatto davvero invitante e io mangiai avidamente quella carne deliziosa.
   “Andrebbe accompagnata con un buon Chianti, ma per questa volta ti consiglio di bere acqua” disse sorridendo.
   Seguii il suo consiglio, poi mi ritrovai a letto senza ricordare i passaggi intermedi tra la fine dello spuntino e il buio… Un’ellissi per me questa volta!
   A mezzogiorno meno un quarto di martedì 26 dicembre 2006 mi svegliai con un mal di testa bestiale. Alzai appena la testa dal cuscino e mi guardai intorno. Provai a concentrarmi e mi chiesi se era stato tutto un brutto sogno. Calma, mi dissi, ragioniamo… … …
   “No cazzo!” esclamai.
   C’era LUI di là nel mini-soggiorno che canticchiava una canzone che avevo sentito anni addietro a un concerto di Francesco De Gregori.
   “… Cammino come un dissidente / Come un deragliato, come un disertore / Senza nemmeno un cappello / O un ombrello da aprire / Ho il cervello in manette / Dico cose già dette e vedo cose già viste / I simpatici mi stanno antipatici / I comici mi rendono triste / Mi fa paura il silenzio / Ma non sopporto il rumore / Dove sarà la tua mano, dolce, / Dove sarà il tuo amore? / Povero me! Povero me! Povero me! / Mi guardo intorno e sono tutti migliori di me…”
   “Aiuto!” dissi tra me e me.
   “… Povero me! Povero me! Povero me! / Non ho nemmeno un amico qualunque / Per bere un caffé… SEI SVEGLIO PIPPO? VUOI UN CAFFE’?”
   “Oh mamma, questo legge anche nel pensiero!” pensai.
   “SI, FORTE, MOLTO FORTE SE POSSIBILE” dissi dalla stanza.
   Presi il cuscino tra le braccia e ci schiacciai dentro la testa, rannicchiandomi in posizione fetale. Da lì cercai di ricostruire la nottata.
   “Possibile?” mi chiesi.
   Intanto Saul era entrato in camera con il caffé.
   “Dovresti andarci piano con il bere” disse, “soprattutto con il bere per dimenticare… altrimenti rischi di farti venire la gastrite… HA HA HA HA HA!”
   Possibile. Possibilissimo.



24


“Chi sei Saul? Chi sei veramente?”
   Eravamo seduti sul divano del mini-soggiorno, lo scrittore alla mia sinistra. Per il mal di testa avevo preso un’aspirina e ora stavo meglio, un meglio molto relativo però.
   “Chi sono? Sono un handicappato sentimentale! Tu non hai idea di cosa significhi crescere senza una carezza, un bacio, un abbraccio; senza nessuno che ti offra una spalla su cui appoggiarti, non avere mai un consiglio, uno sprone. Io ero molto peggio che un orfano: avevo due genitori che non mi amavano!
“Ricordo che da piccolo ero spesso depresso perché pensavo che la colpa di quella mancanza d’amore fosse mia, credevo di non essere un bravo bambino e quindi di non meritarmi l’affetto di mamma e papà. Allora cercavo di non deluderli mai, di renderli orgogliosi di me, a partire dallo studio, ma per mia mamma neanche esistevo, e mio padre, quando c’era, mi picchiava. Mi chiudevo in me stesso e non riuscivo a comunicare i miei sentimenti con nessuno. Sfogavo il dolore su un diario. Ero timido, riservato (cosa che mandava in bestia mio padre, il quale probabilmente avrebbe voluto un figlio fotocopia di lui), diffidavo della gente, paventavo i giudizi che mi riguardavano. Da adolescente avevo sviluppato una sensibilità delicatissima: ogni piccolo fallimento nella vita quotidiana era per me un terremoto.
“Nonostante tutto sapevo di avere un grosso potenziale da tirare fuori… No, non parlo del mio pene… Come posso chiamarlo? Talento? Ecco sì, talento! Dovevo solo trovare il modo di indirizzarlo da qualche parte. E dovevo anche trovare il modo di liberare la mia anima da quella prigione caratteriale che mi ero costruito in anni di disamore. Ma sai una cosa Pippo? Dalle prigioni caratteriali non ci si libera! Prima ero convinto di sì, anzi, ero io la prova vivente che ci si poteva emancipare dalle sbarre della personalità: avevo viaggiato, mi ero arrangiato, avevo vissuto, ero diventato uno scrittore famoso, un uomo stimato; ma ero rimasto il Saul Bartezzaghi bambino, che voleva essere bravo, il migliore forse, per mendicare un po’ di amore.
“A proposito di amore, negli anni ho avuto tante donne e come nel caso di Begonia credevo di amarle, ma pensandoci bene non ho mai amato nessuno, donna o uomo che fosse. Cercavo solo attenzione, volevo catalizzare sentimenti e lusinghe per appagare il mio ego smisurato, cancellare la mia scarsissima autostima e alleviare il dolore provocato da quella solitudine abissale che mi accompagnava dalla nascita.
“Chi sono, mi chiedi. Un uomo troppo solo, un uomo che non sa esprimersi con i sentimenti e quindi scrive. Solo coloro che soffrono possono scrivere – a meno che, come ti ho già spiegato, uno non sia un artigiano anziché un artista – perché scrivere è una catarsi. Farei volentieri a meno della scrittura in cambio di una vita e una personalità normali, ma il destino, marchio di fabbrica indelebile, non si cambia. “Siamo padroni del nostro destino” è una bella frase retorica. Se uno riuscisse a vedere il marchio che ha sul cuore, non ne sarebbe più tanto convinto.”
   Fece una lunga pausa durante la quale rimasi zitto, ipnotizzato da quella confessione che veniva dai meandri più profondi del cuore.
   “Ti voglio dire una cosa, anche se mi prenderai per pazzo…” proseguì, poi subito si mise a ridere, “… beh, per pazzo mi avrai già preso, comunque… Non ci crederai ma posseggo una dote soprannaturale: riesco a vedere l’anima delle persone! A volte non ho neanche bisogno di fermarmi a parlare con uno sconosciuto per vederla, ma se approfondisco la conoscenza essa risalta ai miei occhi. Risalta non è la parola giusta però, perché sono poche le persone con un’anima splendente. Troppo poche. Sai perché sono venuto da te? Perché sei una delle poche persone che conosco con un anima splendente, abbinata inoltre a un intelletto frizzante, il che è ancora più raro.”
   “Come puoi, alla luce di quello che mi dici, uccidere altri esseri umani?” chiesi improvvisamente.
   “Quando nel mondo ci sono così tante anime tetre, agli occhi di Saul il Pittore gli uomini diventano meri oggetti senza valore, se non quello di contenere sangue; a quel punto uccidere diventa come scrivere: il sangue mi aiuta a riempire le pagine della mia vita come prima facevo con l’inchiostro. Scrivere per uccidere e uccidere per scrivere: fa lo stesso. La gastrite diventa una sorta di chiamata alle armi!”
   Altra pausa. Accese una sigaretta.
   “Ora te la faccio io una domanda: ti piace quello che vedi intorno a te?” disse.
   “Beh, fino a ieri ti avrei risposto di sì, ma dopo quello che mi è successo… Barbara…”
   “Lascia perdere Barbara e il filtro dell’amore che ti faceva vedere tutto imbellettato! Ti piace l’ambiente umano in cui ti muovi? Mi spiego? Non noti niente di strano seguendo i discorsi degli amici e dei conoscenti, seguendo la politica e l’attualità, guardando la tv?”
   Accennai un “non saprei” e provai a dire qualcosa, ma Saul era un fiume in piena.
   “Tutta merda! Prendiamo la politica, per esempio. Come si fa a dare  il voto a questi cazzoni? Sono uno più falso, ipocrita, demagogo, viscido dell’altro. Non se ne salva uno. Come si fa? CO-ME-CAZ-ZO-SI-FA ? Meglio il caos totale. Mi piacerebbe che accadesse come in “Fuga da Los Angeles”, il sequel di “1997: Fuga da New York”, dove nel finale Jena Plissken spegne il mondo. Così si potrebbe sperare in un nuovo inizio, anche se, sinceramente, avere fiducia negli esseri umani è un po’ utopistico. Ognuno tira l’acqua al suo mulino e anche se ci fosse una mosca bianca, uno che avesse davvero a cuore la polis, è impossibile che non venga inglobato nel Sistema. Sono persino riusciti a estirpare la meritocrazia per mantenere lo status quo. Spegnere il mondo ho detto, ma il mondo lo stiamo già spegnendo. Non credo sia molto lontana l’apocalisse ecologica. L’uomo è un parassita che distrugge l’ecosistema in cui vive credendo forse che la Natura sia un gigante buono e paziente che sopporta tutto. Quando si ribellerà, e lo sta già facendo, schiaccerà noi cacchette perniciose, noi uomini-virus, senza pietà.
“E di tv vogliamo parlare? Io quando la guardo, sempre più spesso mi sento offeso nella mia presunzione intellettuale. Se non fai un’accurata cernita di programmi e film, i migliori dei quali vanno in onda solo in seconda e terza serata, trovi solo robaccia per lobotomizzati. D’altronde il Sistema deve imporre il Nulla contenutistico per mantenere la massa ignorante, altrimenti si rischierebbe il caos purificatore… Ti sto annoiando?”
   “Assolutamente, ti sto seguendo con interesse.”
   “Avrai senz’altro molti amici. Non ti accorgi di come sono ormai “fottuti”? Loro non se ne rendono conto, ma hanno subito un lavaggio del cervello preoccupante… Il Leviatano, o il Sistema se preferisci, ti propina le medicine che vuole e tu hai poche possibilità di farti un’idea obiettiva e profonda delle cose, dei fatti. Pensa per esempio ai grandi temi di attualità: guerra, terrorismo, tasse, eccetera. Come si fa – con il controllo che hanno sulle nostre menti – a sapere dov’è il giusto e dove lo sbagliato? Una volta che abbiamo elaborato un primo input possiamo approfondire con i nostri mezzi culturali e intellettuali, ma poi? Se siamo ottusi sbattiamo contro un muro. Se non siamo ottusi entriamo in un labirinto. La guerra è giusta o no? Che ne so! Se non fosse che da che mondo è mondo non fossero gli innocenti e gli inermi ad andarci di mezzo, potrebbe anche essere giusta. Si pagano troppe tasse? Può darsi, ma come faccio a sapere se sarà un bene o un male? E la pena di morte? E il perdono? Perdonare o non perdonare un mostro (un mostro vero, non come me!) che uccide un bambino? Il dibattito è sterile: il perdono è un sentimento intimo che riguarda il singolo individuo. Io non perdono, ma è un tuo diritto perdonare!
“Sono ben felice di avere poche certezze e non essere come quei coglioni da bar, che hanno le loro idee spesso retrograde, e le difendono a spada tratta. Mi piace avere posizioni in bilico. Certo, ho anch’io le mie certezze: per esempio sono convinto che Dio sia un’invenzione del Sistema per controllare meglio, soggiogandole, masse di poveri rassegnati bisognosi di qualcuno che pensi per loro.
“La libertà di scelta dell’individuo per quel che riguarda la propria vita è sacra. L’aborto, l’eutanasia, il divorzio, il matrimonio omosessuale, sono libertà assolute e intoccabili della singola persona. Se penso al mare di polemiche seguite alla morte di Piergiorgio Welby, mi viene la gastrite… Ma poi chi ammazzo? Il Leviatano è immortale! Tuttimodi, se un uomo decide che non vuole più vivere e c’è chi gli vorrebbe negare questo desiderio, puoi renderti conto dell’arretratezza culturale e spirituale su cui poggia le basi il nostro Belpaese…
“Bah! Caro il mio Filippo Corona, sto parlando di niente: la verità non si può spiegare, e solo l’anima la conosce.”



25


Pranzammo con pane e salame. Era l’una e mezza e io ero ancora stordito dal tourbillon di emozioni che dalla sera precedente si susseguivano a un ritmo incessante. La batosta inflittami da Barbara e Alberto ci avrebbe impiegato settimane, se non mesi, ad essere metabolizzata; ma intanto ero lì, con quell’uomo inquietante, a filosofeggiare e ad ascoltare le sue imprese sanguinarie.
   Dopo aver ucciso Begonia, nel luglio del 2005, Saul si era recato in Islanda rimanendovi diverse settimane, dopodichè aveva attraversato l’Atlantico ed era stato in Argentina, Cile ed Ecuador. Non si era soffermato molto a raccontarmi quello che aveva fatto in questi posti; di certo “riempiendosi” di luoghi nuovi e affascinanti  la gastrite ne aveva tratto giovamento. Nell’aprile del 2006, dopo un anno di peregrinazioni all’estero, era tornato nella sua città natale.
   “Ero quasi certo che la polizia mi avrebbe arrestato appena sceso dall’aereo” disse, “invece rimasi sorpreso: possibile che nessuno riuscisse a mettersi sulle tracce del Pittore? Beh, mi dissi, buon per me! Tra l’altro ero tornato con l’illusione di essere guarito…”
   Se fosse davvero guarito, Valeriano Baldini non sarebbe morto il 2 maggio del 2006, ventun’anni dopo aver incrociato la strada del futuro serial killer  più misterioso d’Italia.
   Baldini era titolare di un’ impresa di giardinaggio di Pisa che curava parchi pubblici e giardini privati. Nell’estate del 1985, Saul aveva trascorso una settimana alle sue dipendenze come operaio stagionale. Avrebbe dovuto lavorare per tutti e tre i mesi di vacanza dalla scuola, ma Baldini si era dimostrato un capo arrogante e pretenzioso nei confronti di un ragazzino che non aveva mai fatto quel lavoro. Lo rimproverava di continuo, non aveva pazienza di insegnargli, lo obbligava a fare i lavori più faticosi solo per un piacere sadico: ad esempio gli faceva potare i rami degli alberi con una sega a mano quando aveva la possibilità di farlo con una sega a motore. Dopo una settimana, come detto, Saul si licenziò. Il padre, grande amico (di bevute) di Valeriano Baldini, la prese malissimo e per un mese il giovane Bartezzaghi andò in giro con lividi dappertutto.
   “Lo sorpresi alle spalle mentre potava una siepe di lauro in un parchetto di Navacchio, vicino Pisa. Non c’era anima viva nei paraggi. Dopo averlo tramortito con un colpo alla testa, lo trascinai dietro un fitto roveto. Con le cesoie da potatore gli tagliai una ad una le dita delle mani, poi mi divertii a fargli un’operazione di chirurgia plastica: gli cavai i bulbi oculari e misi al loro posto due sassi bianchi sui quali disegnai due grandi pupille; gli tagliai i lati della bocca tanto da farlo sembrare un inquietante e sarcastico joker; gli rempii le narici di terra e come ciliegina sulla torta gli conficcai due rametti di nocciolo nelle orecchie. Sulla fronte scrissi RISPETTA LA NATURA con un pennarello nero.”
   “Cosa ti spinge ad infierire sui cadaveri a quel modo?” chiesi incuriosito.
   “Non sono uno psicologo e non mi sono mai soffermato ad indagare. Credo però abbia a che fare con la predisposizione artistica della mia anima, la quale mi spinge a improvvisare… Non a caso mi definisco un artista estemporaneo! Purtroppo dell’”opera” di Navacchio non ho immagini: quel giorno non avevo con me la macchina fotografica. Ma poco importa, non era granché il corpo elaborato di Baldini. Il vero capolavoro lo feci con Gargiulo.”


lunedì 5 gennaio 2015

Capitoli da 16 a 20.




16


L’ultimo omicidio che Saul compì nel 2004, il sesto in totale, fu quello di uno zingaro, Thomas Macatovic, di quattordici anni appena. Il ragazzino aveva avuto la sciagurata idea di entrare nell’appartamento di Bartezzaghi, credendolo momentaneamente senza inquilino, e buttare all’aria la libreria alla ricerca di denaro o oggetti preziosi nascosti.
   La postilla è d’obbligo: per Saul Bartezzaghi non esiste al mondo cosa più sacra dei libri, e di conseguenza la sua libreria diventa oggetto di culto. Guai profanarla!
   Purtroppo per Thomas, quel tardo pomeriggio Saul era in bagno a godersi un momento di relax immerso nell’acqua bollente della vasca. Udì strani rumori nella stanza accanto e subito si infilò l’accappatoio, poi, lemme lemme socchiuse la porta; vedendo la profanazione perpetrata ai danni della sua inviolabile libreria, la gastrite – per sfortuna dello zingarello – lo stordì con uno spasmo violento.
   Massacrò di botte Macatovic con una mazza da baseball, poi mise il cadavere in una capiente borsa da viaggio, lo caricò in macchina e andò a gettarlo nell’Arno.
   Questa volta non si divertì a comporre macabre opere d’arte, né fece fotografie.
   Rientrato a casa, si mise subito a riordinare la libreria. Prese il primo libro che gli capitò tra le mani e lo sfogliò. Era di Charles Bukowski. Lesse a caso una frase: “L’anima dell’uomo ha radici nello stomaco.” Chiuse il libro e sorrise.



17


Prima di proseguire la discesa all’inferno, ordinammo un paio di pizze a domicilio. Saul mangiò commentando di tanto in tanto quanto fosse buona la sua salame piccante. Io mangiavo in silenzio una margherita, ormai completamente fagocitato dall’irrealtà della situazione, compresso in un limbo ansiogeno, anticamera di dedali luciferiani.
   Dopo l’omicidio di Elisa Cicilli si iniziò a parlare di mostro. I giornalisti avevano raggiunto la scena del delitto prima della polizia e ovviamente per le loro testate si era rivelata manna dal cielo. Gli inquirenti non poterono più nascondere i particolari come nel caso Bartok. Tra l’altro sul caso del professore di educazione fisica ucciso all’incirca un anno prima era trapelata qualche voce che smentiva il raptus da parte di un tossicodipendente colto in flagrante (come scrissero allora i giornali) come movente del delitto. Qualcuno insinuò esserci qualcosa di ben più contorto e misterioso sotto.
   Trasmissioni televisive, articoli di giornale, libri: tutti si sbizzarrivano con le loro teorie sulla mente malata che aveva potuto infliggere un tale scempio al corpo della Cicilli. La “Gazzetta del Tirreno” azzardò che probabilmente l’assassino aveva già ucciso in passato e chiedeva a gran voce che venisse fatta chiarezza sulla sorte di alcune persone scomparse di recente.
   I media sguazzarono nel loro truogolo di sangue nei primi mesi del 2005, anno che si aprì con un’escalation di morti.
   Il 15 gennaio don Mario Tosello, parroco di Pontremoli nella Lunigiana, venne trovato morto nel confessionale della chiesa di San Franceco. Era stato accoltellato al cuore e gli era stata infilata una manciata di ostie in bocca. Recentemente aveva partecipato a diverse trasmissioni televisive regionali ergendosi a paladino della morale. Saul lo aveva visto una sera su Rete Lucca 57, mentre con una foga e un astio che poco si addicevano al suo ruolo, si scagliava contro gay e lesbiche.
   “Malati!” diceva, anzi, gridava. “Gli omosessuali sono esseri degenerati che vanno curati; bisogna estirpare dai loro corpi le insane deviazioni che Satana gli ha inflitto. Ripeto: vanno curati! E non integrati nella società dei probi come fossero persone normali e rispettabili!”
   La gastrite in quel momento mandò il suo input…
   “Non hai infierito sul cadavere, come mai?” chiesi.
   “Non ero ispirato! Non ho nemmeno scattato foto. Sai, è importante creare solo quando ci si sente realmente ispirati. Io lo sento quando un’opera d’arte non è ispirata; un quadro, un libro, una canzone, un film… se l’autore fa tanto per fare, il fruitore dell’opera lo percepisce, almeno a livello inconscio. Ecco la differenza tra un artista e un artigiano: il primo crea tramite ispirazione – ovvero tramite quell’energia vitale che viene dagli abissi dell’anima – il secondo fa, perché qualcuno o qualcosa glielo impone. Imporre è un verbo che non ha niente a che vedere con Creare… Certi individui, come quel don Tosello, sono talmente insignificanti che smorzano ogni afflato.”
   Senza “corollari creativi” particolari uccise anche Benny Predappio e Carlone Diotaiuti.
Predappio era un giovane neonazista a capo di un movimento di estrema destra nota alle forze dell’ordine di Livorno e dintorni. Venne ucciso il 31 gennaio dopo un convegno con pochi adepti in un pub di Piombino. Lo trovarono i suoi compagni fuori dal locale, riverso sul selciato, freddato con cinque colpi di pistola.
   Carlone Diotaiuti invece era padrone di una fabbrica di prodotti chimici di Castelnuovo di Garfagnana. Era stato recentemente condannato a pagare una grossa multa per aver inquinato pesantemente le acque del fiume Serchio. Ad un tg nazionale, intervistato, aveva dichiarato:
   “Il profitto non può e non deve farsi frenare dai danni collaterali. L’imprenditore che si fa degli scrupoli non potrà mai arrivare lontano.”
   Diotaiuti morì strangolato nell’ufficio della sua fabbrica di Castelnuovo. Gli trovarono un pesciolino rosso dipinto di blu in bocca. Era il 13 febbraio.
   Di questi tre omicidi solo quello di Benny Predappio non venne attribuito al mostro, che nel frattempo – forse per la “composizione” davidiana del cadavere della Cicilli – era stato ribattezzato dai media il Pittore.
   “Sembravi esserti dato alla politica” buttai lì a mo’ di battuta.
   “Bisogna pur fare qualcosa per migliorare il mondo. Almeno provarci.”



18


A marzo Saul Bartezzaghi firmò gli ultimi due omicidi prima di prendersi una lunga vacanza.
   L’8 del mese Giampiero Moccolo, titolare della Scuola di Scrittura Creativa Salinger di Genova, esalò l’ultimo respiro nella sua mansarda di Nervi. Con perizia di scassinatore esperto Saul era entrato nella sua alcova e lo aveva aspettato tutto il giorno leggendo un libro di Alessandro Baricco, cosa che non aveva fatto altro che aumentargli i dolori di stomaco.
   Moccolo però non era rincasato solo, e questa volta Saul si era trattenuto dall’eliminare anche la compagna della vittima sacrificale: questa era una ragazzina, avrà avuto non più di vent’anni. Saul era nascosto dietro un separè piuttosto defilato, sistemato in un angolo buio della mansarda. Vide i due tirare di coca e fare sesso. Sentì il suo grosso membro inturgidirsi mentre la ragazza, così giovane, insultava Moccolo con porcherie da sguaiata veterana. Peccato che il Moccolo durò il tempo di due tiri di sigaretta.
   “Eiaculazione precoce” pensò Saul, “un’altra piaga di questa società frenetica!”
   Dopo un’oretta riempita con tiri di coca e discorsi futili, fecero nuovamente l’amore. Questa volta Moccolo resistette qualche colpo in più, ma la ragazza non parve granché soddisfatta della prestazione, tanto che subito dopo si rivestì e uscì lasciando il compagno nudo e strafatto tra i cuscini sistemati sul pavimento di moquette.
   “Finalmente soli” esordì Saul.
   “E tu chi cazzo sei?”
   “Sono Saul Bartezzaghi.”
   “Cazzo ci fai qua? Cazzo vuoi da me?”
   “Voglio che mi insegni la scrittura creativa!”
   Notando che l’intruso gli puntava una pistola contro, Moccolo cambiò il tono minaccioso che aveva istintivamente adottato e cercò di blandirlo…
   “Saul Bartezzaghi? L’autore di “Ulcera” e “Sbronze road”?”
   “In persona.”
   “Co… Cosa posso fare per te?”
   “Te l’ho già detto: voglio imparare scrittura creativa. Non so cosa significhi e mi piacerebbe capirlo.”
   “Non scherzare! Tu, il mitico Saul Bartezzaghi vorresti imparare scrittura creativa… Ma dai!...”
   “E’ da quando mi arrivò una lettera della Scuola di Scrittura Creativa Salinger, circa una decina d’anni fa, che mi chiedo cosa voglia dire e cosa sia una scuola di scrittura creativa. Spiegamelo.”
   Saul aveva tutto il tempo che voleva e si sorbì la spiegazione di Giampiero Moccolo, che ancora sedeva nudo tra i cuscini sparsi per terra.
   “Non ci ho capito un cazzo. Mica mi volevi prendere in giro?!”
   “No cosa dici, ero serissimo!”
   “Quanta gente avete truffato con la vostra scrittura creativa?”
   “Non capisco…”
   “Adesso ti faccio vedere io cos’è la creatività.”
   Detto questo gli sparò un colpo in pancia e mentre agonizzava a terra, lo finì soffocandolo con un libro di Aldo Busi premuto sulla faccia. Dopodichè con un trapano gli fece un grosso buco nella scatola cranica e lo riempì di acido muriatico. Con una graffettatrice gli sigillò il prepuzio e con la smerigliatrice gli consumò la cartilagine del naso fino all’osso. Sistemò poi il corpo nudo del povero capo della Scuola di Scrittura Creativa Salinger imitando la posa di un cadavere in un’illustrazione di Honoré Daumier.
   “Questa è creatività, altro che!” disse prima di andarsene.
   I carabinieri scoprirono il corpo il giorno dopo e i giornali sprecarono quintali di inchiostro per titoli a caratteri cubitali:

IL PITTORE UCCIDE ANCORA

IL MOSTRO COLPISCE IN LIGURIA

CHI FERMERA’ IL SERIAL KILLER ARTISTA?

L’ULTIMA TELA DEL PITTORE


   Non usarono titoloni invece per commentare l’omicidio del 19 marzo, dato che non venne attribuito al mostro. Saul infatti uccise “sobriamente” un pusher fuori dal “Pappafico”, una discoteca di Marina di Pisa. Lo accoltellò diverse volte dopo che si erano appartati facendogli credere che voleva comprare dell’ecstasy.
   “Caro Pippo” mi disse, “sai che sono a favore della liberalizzazione di tutte le droghe, ma quel bastardo aveva appena venduto quella merda a due ragazzine che potevano essere mie figlie.”
   Questo era Saul Bartezzaghi: un folle assassino con i suoi principi!



19


L’impatto che le imprese del Pittore ebbero sulla società furono immediatamente tangibili: la psicosi dilagò in tutta Italia, pur raggiungendo il suo acme in Toscana e Liguria. Se da un lato la paura del mostro rendeva sospettose, paranoiche e ansiose le persone, dall’altro si rivelò un business. Non a caso, dalla Versilia all’alto Lazio, si contarono in quel periodo una trentina di nuove attività (pizzerie, ristoranti, cinema, saloni di bellezza) il cui nome rimandava al temibile assassino: Pizzeria il Pittore, Osteria Budella & Sangue, Multisala Killer Painter, Salone Brivido, Pub Congrega degli Assassini, eccetera. Nonostante la macabra e criticabile scelta, tutti vennero almeno inizialmente ripagati dalla curiosità del pubblico.
   Intanto in televisione gli psichiatri acquistavano sempre più popolarità venendo ripetutamente invitati ai talk show e alle varie trasmissioni televisive. Persino i programmi di ricette culinarie facevano in modo di inserire un esperto che parlasse del Pittore. Intervistati da giornalisti eccitati dalla garanzia di ascolti record, luminari della psiche sottolineavano l’atipicità del mostro. Egli infatti non sembrava agire spinto da pulsioni sessuali; pareva piuttosto uccidere per un bisogno ancestrale insondabile. Inoltre, altro fatto inconsueto per un serial killer, non usava mettere la firma, lasciare una traccia, come invece fanno solitamente gli psicopatici che si sentono superintelligenti per sfidare la polizia e il mondo a prenderli.
   Gli inquirenti brancolavano nel buio. Nel frattempo Saul, il 2 aprile era partito per la Spagna.



20


“Ricordi che ti ho parlato di una ragazza spagnola con la quale ebbi una bellissima storia d’amore?” mi disse Saul.
   “Sì, ricordo.”
   “Eccola!”
   Le due foto che ora reggevano le mie mani tremanti ritraevano semplicemente un cuore, il cuore di un essere umano, il cuore di Begonia Salinas, ex grande amore di Saul.
   “Mi stai dicendo che l’hai uccisa e le hai strappato il cuore?”
   “Sì, l’ho strangolata e le ho strappato il cuore.”
   “Ma cosa… Cosa ti aveva fatto di male? In qualche modo le tue vittime avevano avuto il torto di ferirti, o ferire la tua idea di mondo migliore… Questa povera cristiana a cui hai tolto il cuore cosa…”
   “Aveva spezzato il mio, tanti anni fa. Ma prima lascia che ti spieghi una cosa. Ero ripartito per la Spagna con la speranza che tornando a viaggiare, ripercorrendo quei luoghi che avevo amato da giovane e visitandone dei nuovi, la gastrite non si sarebbe più fatta sentire. Lontano dall’Italia poi, lontano dalla gente che conoscevo, lontano dal marciume, ero quasi certo che non avrei dovuto più ammazzare nessuno. Purtroppo verso l’inizio di luglio ho commesso l’errore di voler passare per Valencia, dove avevo vissuto qualche mese e dove avevo conosciuto e amato Begonia. La curiosità mi spinse a cercare il suo indirizzo; volevo farle una sorpresa e vedere come se la passava. Dopo qualche ricerca rintracciai la sua residenza in un quartiere di case popolari: era divorziata, aveva un figlio piccolo e lavorava in un’agenzia turistica. Quando mi vide sull’uscio fu piacevolmente sorpresa e mi invitò in casa a vedere il suo Manolo, un bellissimo bimbo di un anno e mezzo, vispo e allegro. Rimasi a cena e Begonia mi raccontò della sua vita, abbastanza dura ma affrontata come aveva sempre fatto con il sorriso sulle labbra. Era stata sposata con il proprietario di un autosalone ma lo aveva lasciato quando si era accorta che i loro caratteri erano alquanto incompatibili. Manolo non era figlio del marito: non sapeva neppure lei di chi fosse figlio! Mi disse anche che aveva letto “Estòmago enfermo”, ovvero “Ulcera” tradotto da poco in spagnolo. Aveva seguito la mia carriera letteraria e ciò mi fece piacere.
“Ad un certo punto, dopo che Begonia aveva ricordato i momenti belli della nostra storia insieme, sentii il dolore crescere lentamente. Chiesi il permesso di andare in bagno e qui, fissando il mio volto nello specchio, implorai pietà. Per una volta. Scongiurai lo stomaco, la gastrite, la Voce, Dio, il diavolo… chiunque avesse la facoltà di risparmiarmi in quel momento: non volevo fare del male a Begonia, madre di quell’angioletto”
   “Scusa Saul, permettimi di dare voce a questa intuizione: per caso la tua storia con Begonia era finita a causa di un tradimento?”
   “Già, ottima intuizione. Avevo passato mesi indimenticabili, ero innamorato cotto e credevo lo fosse anche lei. Ma un giorno la sorpresi a letto con un tizio e la storia finì.”
   “Accusasti il colpo?”
   “Certo. Era la prima cosa bella che mi capitava nella vita. Il suo tradimento mi tramortì. Per fortuna c’era sempre il viaggio, l’unica speranza di salvezza che può avere un uomo…”
   “Che successe alla cena?”
   “Nulla. Tornai dal bagno preoccupatissimo. Ormai avevamo finito di mangiare e Manolo dormiva nel suo lettino. Pensai che forse se avessi fatto sesso, avrei sfogato così il mio dolore e la gastrite sarebbe passata. Sedemmo sul divano e… una parola tira l’altra, uno sguardo tira l’altro, una carezza tira l’altra… facemmo l’amore. Lo feci con una foga inusuale, tanto che Begonia mi chiese più volte di fare piano che le facevo male e poi potevo svegliare il bambino. Le venni in faccia, mentre con una mano le stringevo il collo. Le avevo fatto male e mi ero fatto ancor più male io. La gastrite era ancora lì. Iniziai a piangere. Lei mi abbracciò: mi sentivo un bambino abbandonato nel mondo che cercava solo un po’ di amore e comprensione. Mi rivestii e con una scusa me ne andai.
“Vagai per le strade di Valencia disperato, valutando il da farsi. Magari, pensavo, se ammazzo il primo stronzo che mi fa incazzare per strada, mi passerà tutto. Ma sapevo che quella gastrite era venuta a causa di Begonia, quindi se volevo stare bene dovevo uccidere Begonia. Ti giuro che per la prima volta pensai al suicidio, ma la voce silente si impadronì del mio cervello e io dovetti agire…”
   Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si mise le mani nei capelli.
   “La mattina dopo l’andai a prendere all’agenzia viaggi” proseguì. “Aspettai che uscisse per la pausa pranzo e senza farmi troppo notare la invitai sulla mia macchina. Manolo era dai nonni come sempre quando lei lavorava. Con la scusa di un boccone insieme ci allontanammo. La portai nel cortile di una fabbrica abbandonata e… beh…”
   “Povero Manolo!”
   “Hai del whisky?”
   Per fortuna avevo del Jack Daniel. Bevemmo entrambi lunghe sorsate dalla bottiglia.
  


Capitoli da 11 a 15.




11


“Mi svegliai una notte in preda a dolori di stomaco lancinanti” mi disse. “Presi una pastiglia di Maalox e tornai a letto, ma il fastidio non si placava; stetti tutta la notte a contorcermi sotto le lenzuola. Mi venne in mente il mio ultimo libro… Nonostante il male sorridevo al pensiero che era stato appena pubblicato “Ulcera”, dove il protagonista doveva scrivere per attenuare i dolori di stomaco. In quel momento per me scrivere era l’ultima cosa a cui potevo pensare.
“Il giorno seguente gli spasimi parvero aumentare. Mi recai dal mio medico di base il quale mi prescrisse Antepsin e Motilex per due settimane, ma non ebbero alcun effetto e alla fine della cura stavo peggio di quando l’avevo iniziata. Così prenotai una visita da uno specialista. “Caro Bartezzaghi” mi disse il gastroenterologo dopo la prima visita, “sembrerebbe trattarsi di una gastrite, ma lo sapremo con certezza dopo aver fatto un’ecografia ed eventualmente una gastroscopia. Vede, gastrite è un termine generale che comprende numerosi disordini causati da vari eventi lesivi a carico della mucosa dello stomaco. Può essere localizzata in un’area ristretta o interessare tutto lo stomaco. Nel suo caso pare si sia presentata in forma di attacco acuto. Eccede per caso in cibo e alcolici?” Gli risposi che sì, ero sovente fare abuso di alcolici. “Bene” disse, “cominciamo con l’eliminare l’alcol: vedrà che con una semplice dieta associata a medicinali specifici, si sistemerà tutto.” Feci l’ecografia da cui non risultò niente di grave, seguii i consigli alimentari ed eliminai l’alcol, presi correttamente i farmaci che mi prescrisse il professore… Niente! Nessun miglioramento: il dolore diventava sempre più atroce. Feci la gastroscopia, e anche da quella non risultò niente di preoccupante. Ma io stavo sempre peggio.
“Quando l’infiammazione era iniziata, era localizzata nella parte superiore sinistra dell’addome, e come spesso accade nelle gastriti, il dolore – che definirei una sensazione di bruciore – si acutizzava lontano dai pasti. Dopo più di un mese di cure era tutto lo stomaco a… bruciare… pulsare… contorcersi… non saprei neanche definire quel dolore, a digiuno o a stomaco pieno. “E’ una gastrite molto subdola” sentenziò poco convinto il gastroenterologo dopo la quarta o quinta visita. Cambieremo cura farmacologia; lei intanto continui a seguire la dieta e a non bere alcolici.”
“A inizio ottobre stavo ancora molto male. Iniziavo a sospettare che se di gastrite si trattava, non era originata da un regime alimentare disordinato. Mi ero quasi convinto si trattasse di un malessere di natura nervosa. La notte del 3 ottobre mi misi a letto pronto per un’altra nottataccia da incubo, quando ad un certo punto il mio stomaco parlò!”



12


Saul mi spiegò che inizialmente pensava fosse un’allucinazione causata dal dolore o dalle troppe notti insonni; non ci mise molto a rendersi conto della realtà della situazione.
   “Per tutta la vita hai preso bastonate di varia natura e intensità senza mai reagire, tenendoti tutto dentro” gli stava dicendo quella voce. “Io sono il risultato dell’accumulo di traumi interori ed esteriori che hai subito. Li hai somatizzati ed ora eccomi qua!”
   Il famoso scrittore si era messo a sedere sul letto esterrefatto mentre osservava il proprio ventre. La voce continuò:
   “Oh povero Saul, com’è timido, fa quasi tenerezza! dicevano quando eri piccolo. Oh com’è buono, gentile e sempre educato Saul! quasi si meravigliavano quando eri più grandicello. Oh che persona perbene Saul! si complimentavano quando diventasti adulto. Da bambino prendevi botte da tuo padre in silenzio e a scuola non reagivi ai soprusi dei bulli, alle prese in giro dei compagni e agli sberleffi di certi professori. Quando l’estate lavoravi raccogliendo la frutta in campagna e successivamente quando hai lavorato all’estero, approfittavano di te perché non ti lamentavi mai. Avevi una sensibilità più unica che rara e ogni aggressione era un colpo terribile. Piano piano il rancore, la frustrazione, la sana rabbia che ogni essere umano ha dentro, si sono ammassati dentro di te senza trovare vie d’uscita. Lo stillicidio di ingiustizie – comprese quelle che vedevi nel mondo intero – ha fatto traboccare il vaso…”
   Saul provò a parlare, ma non ci riusciva. Allora continuò ad ascoltare incredulo il suo stomaco.
   “…Ti rendi conto che fino ad ora la tua ancora di salvezza è stata la scrittura? Se non ci fosse stata, quale valvola di sfogo avresti avuto? Il sesso? Il cibo? L’alcol? Le droghe? Tutta roba effimera Saul, tutta roba effimera! Non sarebbe servito a nulla. L’arte no che non è effimera, ma ormai hai superato il punto di non ritorno e non puoi più liberarti di me con l’arte, come hai fatto fare al protagonista del tuo recente “Ulcera”. Troppo dolore da diluire sulle pagine immacolate: non puoi farcela!”
   Scese dal letto, accese la luce della camera dell’appartamento di Pisa dove viveva e iniziò a camminare avanti e indietro, come in trance.
  “Pensavi di esserti liberato del marciume scrivendo e viaggiando? Maturando ed evolvendoti? Sognando e creando? Hai fatto male i conti allora. La parte infetta della tua anima, quella che la tua natura fragile ha arginato a fatica col tempo, è ancora qui. Lo capisci? Capisci che sono il latore di un messaggio? Riesci a interpretare il segnale? Gastrite! C’è solo un modo ormai per attenuare il fastidio della gastrite: devi vendicarti del male che ti hanno fatto. Lo so cosa pensi. Che la vendetta non serve a niente, anzi, fa entrare in una spirale di odio sempre più vorticosa… Vero! Ma il tempo dell’ Amore che può salvare gli individui e il mondo è bello che finito. Non te ne accorgi? La FINE del mondo è vicina perché l’uomo si è fatto sopraffare dal Male… L’uomo è egoista, cinico, cattivo, stupido, avido, insensibile, minuscolo… Se davvero sei rimasto uno dei pochi uomini che sanno di non sapere, non esimerti dal ruolo di vendicatore, di angelo della morte. Solo dopo la morte può rinascere la vita, una vita migliore. Tanta gente su questo misero orbe terracqueo merita solo di morire, quindi… uccidi! Vedrai come ci prenderai gusto. Uccidi, o io ti ucciderò trasformandomi in cancro!”
   Improvvisamente, come aveva cominciato, la voce tacque. Saul andò in bagno a guardarsi allo specchio. Aveva un aspetto terribile. Pensò che tra due giorni avrebbe avuto un intervento radiofonico a RTL 102.5: quale occasione migliore per annunciare il suo ritiro... La decisione era irrevocabile.
   “Basta scrivere” si disse. “E’ tempo di uccidere.”



13


Erano circa le 22. Quasi tre ore erano trascorse dall’inaspettato incontro con Saul. Ormai lo shock si era trasformato in uno stato di semincoscienza: ascoltavo il suo racconto – intervallato da digressioni sull’attualità, veri e propri voli pindarici se si considera il contesto di orrore in cui eravamo proiettati – come fossi in un ambiente onirico. Mi destai da quella condizione e lo interruppi:
   “Scusa Saul, ma devo telefonare a Barbara, la mia ragazza. Le avevo promesso che lo avrei fatto appena fossi arrivato a casa e ormai sono a casa da un po’…”
   “Ok, però non dire che sono qua. Non sono ricercato, ma voglio che questo tète-à-tète rimanga fra noi.”
   “Va bene, come vuoi.”
   Presi il cellulare dalla tasca della giacca che indossavo e chiamai Barbara. Mi scusai per non avere chiamato prima inventando una scusa banale e prima di riagganciare le dissi che la amavo.
   “Anch’io!” disse Saul.
   “Come?”
   “Sicuramente ti avrà risposto “anch’io!””
   “Sì, perché?”
   “Lascia perdere e ascoltami…”
   “Senti Saul!” lo interruppi bruscamente alzandomi in piedi. “Io potrei anche non aver voglia di ascoltare cos’hai combinato in questi anni. Sinceramente sono scioccato per quello che hai fatto e ho paura di sentire cos’hai ancora da dire. Mi fai paura tu! Non capisco cosa vuoi da me. Potrei andare alla polizia e spifferare di questa conversazione assurda. Potrei metterti nei casini…”
   “Ma non lo farai!”
   “Cosa te lo fa pensare?”
   “Primo, sai che devi ascoltarmi perché senti che è troppo importante quello che ti dirò. Secondo…” e qui tirò fuori da sotto il cuscino, dove lo aveva nascosto precedentemente, un vecchio revolver “… questo sembra un buon deterrente per non farti fare stupidaggini di cui potresti pentirti. Probabilmente contro di te non lo userei neanche se cercassi di chiamare la polizia, ma meglio non sfidare la sorte visto che hai davanti un pazzo omicida. Non credi?!”
   “Già!” sospirai.
   Mi rimisi a sedere e ripiombai in quello stato indefinibile in bilico tra curiosità morbosa e paura anestetizzata.
   “Perché non mi hanno mai preso?” proseguì. “Forse fortuna, elemento fondamentale nella vita di ogni singolo uomo. O forse sono stato scaltro nell’agire. Non saprei: io pensavo solo a sfamare la mia gastrite con il sacrificio umano per ingraziarmela e non essere tormentato dalla sua ira. Non premeditavo granché quando andavo ad ammazzare. Ho ucciso diverse persone che prese insieme si collegavano facilmente a me; se ci pensi, anche il più stupido dei detective sarebbe arrivato quantomeno a sospettarmi, ma non sono stato indagato finora. Difficile da spiegarsi. Può darsi che la fama mi abbia un po’ fatto da scudo, o magari il Male, padrone del mondo, mi ha protetto… E’ come se mi fossi affiliato alla sua potentissima setta e godessi di una sorta di immunità che mi consente di agire indisturbato.”
   “Hai mai rischiato di farti beccare?” chiesi.
   “No, però quando uccisi la seconda volta, per poco non mi beccò la vittima con un colpo di fucile.”



14


La seconda vittima di Saul si chiamava Furio Alfieri ed era il padre padrone dell’Editore Nuovo Autore di Milano.
   “La gastrite era magicamente guarita dopo aver ucciso Bartok.” disse. “Sembrava incredibile poter stare nuovamente bene, dormire la notte, mangiare e bere senza timore di gonfiori, bruciori, gorgoglii, fitte. La pace però durò appena un mese…”
   “Scusa se ti interrompo, non ho capito una cosa: era la voce a ordinarti di uccidere?”
   “No, la voce la sentii per la prima e unica volta quella notte maledetta. Era la gastrite silente che, esplodendo d’improvviso, annunciava che era ora di tornare alla vendetta.
“Come ti stavo dicendo, dopo un mese dal primo omicidio, dalle profondità del mio stomaco arrivò la chiamata… Andai a trovare Alfieri nella sua villetta di Segrate, nell’interland milanese. Sapeva chi ero anche se non si ricordava del mio libretto di poesie che aveva pubblicato la sua casa editrice nel ’92. Mi invitò a sedere nel salotto pregustando forse la possibilità di pubblicare qualcosa di mio, del famoso Bartezzaghi.”
   “Era solo in casa?”
   “Purtroppo c’era la moglie. Dovetti eliminare anche lei!”
   Ci fu un istante di silenzio, durante il quale Saul ripassò la scena quasi fosse un regista in cerca di quella piccolezza che sfugge, ma che si sa che c’è, che disturba, pur non vedendosi chiaramente.
   “Dopo qualche minuto di conversazione” riprese, “dove quel verme leccaculo mi disse che avrebbe pubblicato (ovviamente gratuitamente) qualsiasi cosa gli avessi consegnato, valutati i rischi, estrassi dalla cintura questo stesso revolver e gli sparai due colpi a bruciapelo. Alfieri cadde supino sul tappeto persiano. Subito mi precipitai dalla moglie che ci stava preparando un caffé in cucina. “Mi dispiace” le dissi prima di centrarla in fronte con una palla di piombo. Stetti qualche istante a contemplare il suo corpo senza vita, mentre riflettevo che noi uomini siamo come tessere di un puzzle: ci incastriamo l’un l’altro solo se siamo compatibili, se ci assomigliamo. Quindi quella donna era tutt’uno con il marito, così conclusi, e il senso di colpa sparì.”
   Altra breve pausa, subito interrotta dal prosieguo.
   “Tornai in salotto e vidi che il corpo di Furio Alfieri era sparito. Ebbi appena il tempo di alzare lo sguardo al mobiletto che avevo notato appena entrato, quello che conteneva i fucili da caccia, che un colpo partì. Lo sentii passare a un millimetro dal mio orecchio sinistro. Istintivamente sparai senza prendere la mira e colpii al cuore il vecchio editore.”
   Di Furio Alfieri non ricordavo la morte. A volte i giornali e i telegiornali decidono di dare risalto o meno a una notizia a seconda dell’inchiostro e dei metri di pellicola che hanno da spendere. Se c’è calma piatta in giro, anche la morte di un cane colpito da un fulmine diventa notizia da prima pagina. Evidentemente quella volta c’era in giro qualche dramma più succulento per i media…
   Saul comunque era stato abile - dopo aver fatto scempio del cadavere di Alfieri - a declassare l’evento da “caso Franzoni” (citando l’omicidio del bambino di Cogne) a “caso Chissenefrega”, mediaticamente parlando. Aveva infatti appiccato il fuoco alla villatta, la quale era esplosa occultando le prove di un omicidio terrificante che avrebbe tenuto milioni di italiani incollati al teleschermo e alle pagine di giornale.
   Assicuratosi della morte di Alfieri, gli aveva infilato un cappio al collo e aveva issato il corpo a una trave. Gli aveva piantato in testa un centinaio tra biro e matite che la vittima teneva nel portamatite del suo studio, tanto che, visto da lontano, sembrava indossare una grottesca parrucca da pagliaccio. Con un coltello trovato in cucina gli aveva squartato la pancia e con fegato, reni, intestino e interiora varie aveva modellato sul pavimento quella che sembrava una scultura di De Chirico. La moglie non la toccò.
   “Vuoi vedere le foto?”
   “Hai fatto delle foto?”
   “Certo! Non potevo permettere che il fuoco cancellasse una simile opera d’arte…”
   Dal tascone centrale della felpa che indossava tirò fuori una busta contenente un blocchetto di fotografie tenute insieme da un elastico. Mi passò la prima. La guardai e subito vomitai nel cestino per la carta che avevo di fianco.



15


Le braci riposavano sotto la cenere da cinque mesi ormai, quando una sera, mentre stava guardando alla tv una puntata di “Porta a Porta” che parlava di rapporti tra calciatori e veline, Saul ebbe un attacco feroce, tra i più dolorosi. Si trovava in un hotel di Roma dove stava trascorrendo alcuni giorni in visita alla città.
   “E adesso?!” si disse. “Chi cazzo ammazzo?”
   Si stese sul letto e cercò di pensare.
   Il giorno dopo era a Cascina, un comune in provincia di Pisa. Lì aveva la residenza un ex dentista in pensione che era stato assessore alla cultura del comune di Pisa nel 1998, anno in cui Saul gli aveva telefonato per chiedere se fosse stato possibile presentare “Se” nell’ambito della rassegna letteraria “Incontri sotto la Torre”, manifestazione culturale che si svolgeva ogni estate nel suggestivo scenario di Campo dei Miracoli. Oreste Fini – l’assessore – gli aveva risposto che prima avrebbe dato un’occhiata a “Se”, poi gli avrebbe fatto sapere…
   Saul richiamò tempo dopo cercando di sollecitare l’assessore, visto che l’estate stava terminando e con essa la rassegna. Questa volta Oreste Fini rispose poco educatamente che non aveva avuto tempo di leggere “Se”, ma poco importava, perché non gli interessava proporre un autore sconosciuto che avrebbe portato in piazza sì e no una cinquantina di persone. Saul riagganciò mortificato.
   La testa di Oreste Fini era infilata per una narice all’antenna della sua BMW, parcheggiata nel garage di casa. I denti gli erano stati estratti uno a uno con certosina pazienza e disposti sul cofano della macchina a formare un cuore. Il corpo era all’interno dell’abitacolo con la cintura allacciata e le mani sul volante. Al posto della testa mozzata era attaccata quella di Pimpi, l’amico di Winnie the Pooh, un peluche gigante che Fini avrebbe dovuto regalare alla sua nipotina.
   Mi passò la foto. Questa volta non vomitai, ma ebbi un conato di vomito che rimandai indietro attaccandomi alla seconda bottiglia di Pinot grigio.
   Anche in questo caso le tracce dell’opera dell’assassino vennero cancellate. Saul tagliò in vari pezzi il corpo dell’ex dentista, li mise in alcuni sacchetti neri della spazzatura e sotterrò tutto nel mezzo di una pineta a Tirrenia, sul litorale pisano.
   La foto successiva mostrava un’altra macabra “creazione”, corredata dalla divertita telecronaca del suo autore:
   “Un pomeriggio dell’agosto 2004, verso sera, stavo leggendo un libro su una panchina di un parchetto di Follonica: “Il giardino dei Finzi-Contini” per la precisione, quando a pochi metri da me una madre cominciò a picchiare selvaggiamente la figlioletta di nemmeno tre anni, credo perché aveva inavvertitamente fatto cadere il gelato appena comprato. Cercai di dirle qualcosa ma questa invasata mi rispose di farmi gli affari miei, che a educare sua figlia ci pensava lei. La gastrite mi aggredì!”
   Elisa Cicilli abitava a un centinaio di metri dal parchetto. Saul la seguì a casa e quando fu entrata suonò alla porta…
   Quelle tre foto – a differenza degli altri omicidi ne aveva con sé più di una – erano non meno raccapriccianti di quelle che già mi aveva mostrato. La donna era nuda, adagiata nella vasca da bagno con un asciugamano avvolto a mo’ di turbante in testa: la postura imitava quella del “Marat assassinato”, il dipinto di Jacques-Louis David. Nella mano destra stringeva un biberon riempito col suo stesso sangue; in quella sinistra un foglio su cui l’assassino aveva disegnato col sangue tanti piccoli omini in stile Keith Haring. I capezzoli erano stati tagliati e la vagina squartata con un coltello da cucina.

   Quando il marito rientrò in casa, prima di trovarsi di fronte la scena orripilante del bagno, trovò la figlioletta che dormiva come un angioletto nel suo lettino.