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I tre ragazzi si erano ritrovati
al solito bar per l’aperitivo del sabato sera. Bevevano cercando di carburare
il più possibile per non sfigurare in mezzo alle varie compagnie di maschi
standardizzati e femmine appariscenti, amalgamandosi alla perfezione in quella crème di vacuità. Galleggiavano
tranquilli nel mare di discorsi futili che solitamente fanno da sottofondo
all’happy hour modaiolo, ma una volta finita la carburazione e svuotatosi il
bar, era sopraggiunta la noia, cosicché Matteo, il leader del gruppetto, aveva
proposto una capatina al cimitero.
Passate da poco le 23 di sabato 13 maggio, Matteo, Gianni e Sandrino,
ventenni pisani, stavano rompendo e imbrattando con vernice spray le lapidi del
camposanto di Pontedera, sfogando con il vandalismo più cretino le loro
frustrazioni, nell’impossibile tentativo di colmare il vuoto abissale che
avevano dentro.
A un certo punto, Matteo e Sandrino videro che Gianni era rimasto
paralizzato ad osservare qualcosa alle loro spalle. Si voltarono lentamente e
lo videro…
Gennaro Gargiulo era impalato di fianco a una lapide. Il tubo usato era
conficcato nel terreno e passando per l’ano della povera vittima gli
fuoriusciva dalla bocca. La gabbia toracica gli era stata aperta segando a metà
lo sterno e al suo interno, asportati polmoni e cuore, era posizionato un
teschio con due ceri accesi inseriti nelle cavità oculari. Le gambe nude erano
tagliuzzate in verticale con tagli paralleli profondi e regolari che andavano
dagli inguini alle caviglie.
“Ero ancora lì al cimitero quando vidi arrivare quei tre sfigatelli”
spiegò Saul. “Avevo appena finito la mia opera e per loro fortuna la gastrite
era già passata, altrimenti è probabile che avrei sistemato anche loro dopo
aver visto cosa stavano combinando. Li osservai di nascosto, poi quando si
accorsero di Gargiulo impalato, me la filai. Credo se la siano data a gambe
anche loro poco dopo, e per non dover sopportare il peso di quella scoperta
decisero di andare alla prima stazione dei carabinieri che incontrarono.
Raccontarono che erano andati al cimitero solo per provare l’ebbrezza di osservare
le tombe illuminate nella notte: non volevano fare niente di male e si erano
accorti subito del vandalismo subito dalle lapidi. In un secondo momento
avevano scoperto il cadavere di Gennaro Gargiulo.
“I giornali attribuirino
l’ennesimo omicidio al Pittore e iniziò così la gara tra i luminari della
psiche alla ricerca del movente che aveva spinto il mostro non solo a uccidere,
ma anche a distruggere tombe. Sinceramente mi sarebbe dispiaciuto prendere la
colpa per una cosa così stupida; per fortuna gli inquirenti fecero presto
chiarezza e i tre ragazzi crollarono in una confessione simultanea.”
“Se non sbaglio Gargiulo era un finanziere. Cosa ti aveva fatto per
scatenare la gastrite?”
“Sì, Gennaro Gargiulo era un finanziere, conosciuto in tutta Pisa e
dintorni per la sua intransigenza. Nel ’92 ero rientrato da poco in Italia
quando mi fermò per un controllo stradale. Avevo con me pochi grammi di
marijuana, la trovò nascosta sotto un coprisedile e mi portò in caserma. Lì mi
sottopose a un duro interrogatorio, credendo forse che fossi uno spacciatore:
di certo il mio look trasandato non mi aiutava! Mi insultò, mi derise, mi
smontò – danneggiandola – la macchina per vedere se nascondevo altra droga.
Prima di lasciarmi andare, disse: Ora
dovrai presentarti in prefettura per un colloquio con un’assistente sociale, te
la cavi quindi con una piccola ammonizione purtroppo… I fricchettoni del cazzo
come te dovrebbero essere sbattuti in gabbia a mangiare scarafaggi per anni!
“In quel momento non mi
capacitavo di tanto livore; solo tempo dopo venni a sapere che suo figlio era
morto di overdose. Povero Gargiulo… un altro di quei poveri stronzi che pensano
che la colpa sia della droga e non
del Sistema o addirittura loro! Ad ogni modo la mia gastrite non ebbe pietà del
dramma filiale del finanziere. Fu così che molti anni dopo realizzai la mia
migliore opera d’arte.”
Di questa conservava cinque foto, il cui commento non necessita dell’uso
di parole!
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Nota postuma: questo capitolo è stato oggetto di forti contrasti
interiori, ma ribadendo il discorso che qui l’editor sono io, alla fine ho
deciso di inserirlo. Giordano Fagioli direbbe probabilmente che “non ci sta a
dire un cazzo!”: in parte concordo. Ma i libri, come la vita – e sto per dire
la banalità del secolo – sono fatti anche di capitoli “apparentemente” inutili.
Apparentemente! Se col tempo si impara la saggezza e l’arte di leggere (i
dettagli) si riuscirà ad apprezzare anche il piccolo neo. Anzi, in molti casi
il neo diventa fonte di grande fascino. Ho già blaterato troppo…
Perché Saul aveva investigato per
conto suo sull’infedeltà di Barbara e nel bel mezzo della cronistoria della sua
attività di Pittore mi aveva spiattellato in faccia il tradimento? PERCHE’? Me
lo chiedevo nei momenti di pausa, rari, che il suo racconto concedeva.
Non molto tempo fa, ho letto queste parole in un libro intitolato “La Grande Inculata”, di un autore
emergente a me caro:
Sapere, sapere, sapere… viviamo per sapere.
Ma sapere cosa?
Anche il più intelligente degli uomini,
il più grande filosofo o intellettuale,
l’artista più sublime,
morirà senza sapere.
Chiunque creda di sapere,
arriverà a esalare l’ultimo respiro
senza in realtà aver mai saputo nulla.
Quelle poche righe mi piacquero tanto che le scrissi su un foglio e le
incorniciai in un quadretto che fino a qualche tempo fa campeggiava sul muro
dietro la mia scrivania alla Cisco Ribelle. Sono l’emblema dell’impossibile
lotta dell’uomo alla ricerca di un Senso metafisico della vita.
Ecco, durante una di quelle pause, ebbi la consapevolezza che se avessi
continuato a chiedermi “perché?” avrei seriamente rischiato di impazzire.
Valeva la pena correre il rischio?
Perché? Perché? Perché? A quanti
“PERCHE’?”
bisogna rispondere prima di
accendere una piccola luce nel buio?
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“… e poi è finito anche il tempo
di uccidere. Come e perché è finito te lo spiegherò tra non molto, intanto
sappi che l’ultima vittima è stata il mio ex amico Michele Bettarini, ucciso
una settimana dopo Gargiulo.
“Se questo omicidio non ha messo
gli inquirenti sulle mie tracce, credo che non mi prenderanno più, ma ormai ha
poca importanza…”
“Vuoi dire che non ti importa di passare il resto della tua vita dietro
le sbarre?”
“Esattamente, non mi importa. Ti spiegherò anche questo, prima però
fammi raccontare di Michele…
“Tra le tante sfortune che ho
avuto nella vita, c’è stata anche quella di non avere mai avuto un amico. Forse
è stata anche colpa mia, del mio carattere, ma ho conosciuto gente mediocre e
superficiale in materia di rapporti umani, tanto che sono giunto a ritenere
l’amicizia un sentimento ipocrita, falso. Prima che si sviluppasse in me questo
pessimismo, c’era però lui, Michele Bettarini. Siamo cresciuti insieme: era il
mio compagno di giochi d’infanzia e fino alle scuole superiori siamo sempre
stati compagni di banco. Avevamo un ottimo feeling anche perché sembrava
diverso dagli altri pecoroni del gregge, più sensibile e con una maturità da
persona più grande della sua età. Mi fidavo ciecamente di lui, lo rispettavo e
stimavo molto, e la cosa era reciproca.
“Verso la fine del quarto anno di
liceo, si mise insieme a una nostra compagna di classe – Beatrice Virgili – di
cui anch’io ero invaghito. Non ero geloso però, anzi, ero contento per lui. Un
giorno, uno dei primi giorni di scuola del quinto e ultimo anno, mi chiamò in
disparte e con una faccia di bronzo imperturbabile, come se neanche ci
conoscessimo da una vita, mi disse: “Scusa Saul, ma preferirei non avere più
niente a che fare con te. Continuare a frequentarti significherebbe la mia
morte sociale, sia agli occhi di Bea sia agli occhi degli altri. Perdonami…”.
Rimasi impietrito. Anni di amicizia che credevo vera e sincera venivano
cestinati così, senza un motivo logico, o forse per un motivo fin troppo logico:
se stai con lo sfigato sei uno sfigato! Triste assioma spesso causa di
emarginazione già tra i bambini.
“Addirittura si inserì
perfettamente nella compagnia di bulletti che mi prendeva spesso in mezzo e
diventò uno dei più feroci nel farmi gli scherzi. Nel giro di pochi mesi il
nostro rapporto cambiò radicalmente, tanto che Michele mi rivolgeva la parola
solo per prendermi in giro davanti a tutti. Divenne il mio aguzzino per tutto
l’ultimo anno trascorso al liceo classico “Mario Sciaccaluga” di Pisa.”
“Povero Saul!” esclamai immaginandomi un Saul adolescente esposto al
pubblico ludibrio.
“Dispiace solo che una ventina d’anni più tardi si era fatto una
famiglia… Non con Beatrice però: la loro storia finì un paio d’anni dopo la
fine del liceo. Ora era sposato con una matrona più vecchia di lui di dieci
anni e aveva due figli di otto e dieci anni.
“L’ho aspettato sotto casa al
ritorno dal lavoro. Era diventato quello che sospettavo, un triste travet senza
pretese in un ufficio di non ricordo cosa. Stava per infilare le chiavi nella
porta d’ingresso quando lo chiamai. “Michele, ti ricordi di me?!” gli dissi.
“Saul!” esclamò. Quel che vidi nel suo sguardo per un attimo mi bloccò; forse
era autosuggestione, ma nei suoi occhi lessi qualcosa che interpretai come “Sapevo che eri tu il Pittore! Sapevo
che prima o poi saresti arrivato!”. Sparai un colpo alla nuca e uno al cuore.”
Fece una lunga pausa, poi mi chiese se avevo ancora della birra in
frigo. Andai a prendere le ultime due Peroni rimaste e tornai a sedermi di
fianco a lui.
“Chissà se io e te saremmo potuti diventare grandi amici se fossimo
cresciuti insieme!?” si chiese con lo sguardo malinconico perso nel vuoto.
Accese una sigaretta, bevve una lunga sorsata di birra e dopo aver
trattenuto a stento un rutto, disse:
“Sai Pippo, ucciso Michele, per la prima volta piansi dopo aver placato
la gastrite.”
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Il pomeriggio scivolava veloce
verso il crepuscolo. Il frigo era vuoto e il mio stomaco pure, così chiesi a
Saul di interrompere un momento la narrazione per scendere al negozio pakistano
di alimentari sotto casa a comprare una confezione di birre e qualcosa da
mettere sotto i denti. Tornai dopo mezz’ora.
“Avevo dimenticato che oggi è Santo Stefano e i negozi sono chiusi”
dissi rincasando. “Per fortuna il vicino della porta qui a lato – che fa il
barista – ha sempre qualche birra di “contrabbando” da passarmi nei momenti di
bisogno. Se hai fame però, devi accontentarti di sgranocchiare delle patatine
in sacchetto o in alternativa assaggiare un minestrone di verdure che mi è
avanzato nel freezer.”
“Grazie, non ho fame.”
“Ha iniziato a nevicare sai?!”
Alla notizia Saul si alzò dal divano e andò alla finestra. Grossi
fiocchi scendevano dal cielo e presto avrebbero ricoperto strade e tetti,
prendendo alla sprovvista i mezzi spargisale e spazzaneve.
“Che bello!” esclamò. “Mi emoziono sempre quando vedo nevicare. La neve
mi fa tornare indietro a quando ancora credevo nelle persone e avevo dei
sogni!”
Quell’uomo mi sorprendeva continuamente; mentre era lì alla finestra che
guardava trasognato la città coprirsi di bianco, ebbi la certezza che una volta
uscito dall’appartamento, la mia vita sarebbe stata completamente diversa.
“Che ne dici di stappare la birra della staffa?” disse tornando ad
accomodarsi sul divano.
Lo accontentai e mi sedetti al suo fianco.
30
“Ricordo benissimo il giorno che
ha cambiato la mia vita senza più possibilità di tornare indietro o prendere
altre strade. Era lunedì 5 giugno di quest’anno e mi trovavo al liceo “Mario
Sciaccaluga”. Sì Pippo caro, il mio liceo
classico. Ero stato invitato dal preside Felice Gonfiantini – che conoscevo da
anni per essere stato il mio professore di italiano, tra l’altro molto
apprezzato – a tenere un reading davanti a tutte e dodici le classi che
ospitava la struttura scolastica, trovandomi di fronte centinaia di ragazzi dai
quattordici ai diciotto vent’anni.
“All’inizio ero stato riluttante
all’idea, ma il vecchio professor Gonfiantini mi aveva convinto con il suo
garbo e la sua simpatia. Per molti sei un
mito caro Saul. Sei il sogno diventato realtà, colui che con l’impegno e la
passione è riuscito a emergere dal grigiore generale. Sono molto orgoglioso di
essere stato il tuo professore di italiano; la tua presenza potrà accendere la
miccia che farà deflagrare definitivamente l’amore per la letteratura che
ognuno di questi ragazzi fagocitati dalla modernità dovrebbe avere. Così mi
disse.
“C’era un entusiasmo
indescrivibile nella palestra della scuola dove si teneva il reading,
accentuato probabilmente dalle imminenti vacanze estive. Quando feci il mio
ingresso, i ragazzi mi accolsero con una standing ovation accompagnata da un
coro: “Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no Bar-tez-za-ghi-nu-me-ro-u-no…”
ripetevano. Ero sorpreso e quasi imbarazzato da tanto calore… (Calore che avrei
voluto provare in ben altre situazioni nella vita…) Molti avevano con sé una
copia di “Sbronze road”, o di “Ulcera”, o di entrambi i best seller, da farmi
autografare al termine dell’intervento.
“Gonfiantini placò a stento
l’euforia con reiterati “per favore ragazzi” sibilati al microfono. Al tavolo,
sistemato sul lato ovest della palestra, eravamo seduti io, Gonfiantini e due
professoresse, credo una di latino e una di italiano. Era la prima volta che
parlavo davanti a una folla di soli giovani e non avevo preparato nessun
discorso, così cercai di improvvisare partendo – dopo il preludio del preside –
col raccontare alcuni aneddoti della mia trafila scolastica allo “Sciaccaluga”.
Nonostante i ricordi spiacevoli soverchiassero quelli piacevoli, qualche
simpatica storiella nostalgica l’avevo anch’io nel repertorio. Parlai poi
dell’importanza di fare esperienze di viaggio, inteso non solo come viaggio fisico
ma anche mentale e spirituale; di fare le cose con impegno e passione; di
affinare il proprio talento; di non cadere nelle imboscate del Sistema; di
mantenere la mente elastica con la lettura; di saper leggere non solo i libri
ma anche gli ambienti e le persone; di saper ascoltare il silenzio; di essere
liberi, indipendenti e curiosi; di non giudicare senza prima conoscere, e anche
dopo aver conosciuto di stare molto attenti ai giudizi; di amare… Forse nel
complesso mi lasciai andare a un filo di retorica, ma riuscii a non annoiare
nessuno con la mia semplice filosofia. Lessi alcune pagine di “Sbronze road” e
di “Ulcera”, persino un paio di paragrafi di “Se”; venne infine il momento,
introdotto da Gonfiantini, delle domande. Mentre rispondevo, all’improvviso… il
black out! Non credo fosse colpa delle domande: i ragazzi ponevano quesiti
mediamente interessanti, almeno non
banali, fatto sta che la capacità che posseggo di leggere le anime si impossessò
di me. Avvenne tutto in pochi secondi: vidi quei giovani attraverso il filtro
del mio “potere”, della mia “lente d’ingrandimento animale” e… vidi il Vuoto.
Le loro anime erano spente, buie, morte. Qualcuna splendeva, certo. Di queste
rare perle ne intravidi forse una mezza dozzina tra i duecentocinquanta ragazzi
presenti. Quella visione mi diede la consapevolezza della sconfitta.”
“Sconfitta?” lo interruppi. “Di chi? Di cosa?”
“Della società, della famiglia, dell’istituzione scolastica. E mia, in
quanto singolo individuo, pertanto pedina debolissima sulla scacchiera, vittima
sacrificale in una battaglia persa in partenza.”
Fece una pausa cercando una sigaretta, ma notando che il pacchetto era
vuoto, lo accartocciò e proseguì:
“Cosa potevo fare per liberarmi dalle catene e allontanare quel senso di
annientamento? Scrivere serviva a poco, infatti avevo smesso. Per chi scrivere
poi? Cosa scrivi quando la lettura diventa un hobby per un’elite prossima
all’estinzione? I giovani oggi non leggono… Intendiamoci: leggono, ma non sanno
quel che leggono. Il progresso sta uccidendo l’intelligenza e anche la cultura.
“
Bevve un sorso di birra riflettendo sul discorso che stava imbastendo.
Proseguì:
“Anni fa mi sembra di averti detto che non si scrive per se stessi
(nemmeno i diari, aggiungo ora, si scrivono per se stessi), bensì per la
Figa. In un certo senso scherzavo, ma ero
anche molto serio. Metaforicamente parlando, se la Figa rappresenta la Vita, si scrive per lasciare
un segno nella vita. Ma se la
Figa è irrimediabilmente frigida e sterile… Se l’uomo è
sempre meno individuo pensante e sempre più massa confusa, e in quanto massa,
priva di identità, SCRIVERE E’ COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO!”
Altro sorso di birra e altra pausa.
“E uccidere? Uguale. Capivo in quegli istanti che nemmeno uccidere aveva
un senso nella Grande Guerra contro l’imbecillità umana. Serviva solo a me come
palliativo momentaneo ma non serviva certo ad accendere anime spente. Che il
Destino faccia il suo corso allora! Per Destino non intendo l’ipotetica mano di
un Dio che decide le nostre mosse, bada bene! Tu non lo vedi, ma c’è un
sentiero invisibile che percorriamo, un sentiero tracciato addirittura prima
del nostro concepimento e che prosegue anche dopo la nostra morte. Il mio
Destino mi porta ora a bussare alla porta dell’Infinito.
“Finito il reading uscii dal
liceo Mario Sciaccaluga di Pisa totalmente spossato e con un dolore di stomaco
terribile, come mai avevo avuto. Portavo con me una decisione: avrei lasciato,
come mi aveva ammonito la Voce
anni addietro, che il dolore si trasformasse in tumore. Dal 5 giugno la
gastrite sta velocemente evolvendo in cancro. Ho semplicemente seguito il
sentiero e adesso morirò, conscio di lasciare un mondo vuoto, sicuramente più vuoto di quel mondo che c’è o non c’è
dopo che avrò superato il “momento supremo”. Aspetto quel momento con serenità.
Mi sono arreso dopo aver massacrato i miei fantasmi, ma i fantasmi non
muoiono.”
31
Come un sipario immaginario il
silenzio calò su di noi. Saul si alzò dal divano e mi tese la mano; io feci lo
stesso ma anziché dargli la mano ebbi l’impulso di abbracciarlo. Ci
abbracciammo.
“Allora… addio!” dissi.
“Addio!”
Addio, le ultime parole che Saul Bartezzaghi pronunciò. Prima di
scendere le scale che lo avrebbero portato nell’androne e quindi in strada, si
girò un’ultima volta, mi sorrise e strizzandomi l’occhio si accomiatò per
sempre da me.
Mi affacciai alla finestra e lo vidi attraversare via Zamboni ricoperta
dalla neve. Nevicava ancora copiosamente; osservai le orme che si era lasciato
alle spalle sparire velocemente, ricoperte da nuovi strati di bianco.
Mi coricai supino sul divano, frastornato da quelle ventiquattr’ore
kafkiane passate in compagnia del Pittore. Erano le 19 e qualche minuto.
“E adesso?” mi chiesi ad alta voce.
Poco dopo mi addormentai e fu un sonno travagliato pieno di sogni.
32
Il giorno dopo sarei dovuto
partire con Barbara per Parigi. Partii solo.
La notte di San Silvestro ero agli Champs-Elysées a provare di divertirmi; nonostante avessi bevuto parecchio, non ero
per nulla euforico. Intorno a me c’erano migliaia di persone, eppure non mi ero
mai sentito così solo in vita mia. Sentivo la mancanza di qualcuno e quel
qualcuno non era Barbara. Possibile invece che quel qualcuno fosse Saul?
Possibile sentirsi orfani di uno che squarta il corpo di un altro essere umano
con la stessa facilità con cui scrive il capitolo di un libro? Ebbene sì, Saul
Bartezzaghi mi mancava, ma Saul Bartezzaghi era morto quel giorno stesso. Lo
venni a sapere il primo gennaio sbirciando i titoli dei giornali davanti a
un’edicola. Era molto famoso in Francia, i suoi libri avevano avuto più fortuna
che in Italia, e “le Figaro” gli dedicava un trafiletto con foto in copertina.
Rimasi basito, anche perché pochi giorni prima il suo aspetto non sembrava
quello di un malato terminale; non pensavo che il tumore fosse in un così
avanzato stadio.
Comprai il giornale e andai a sedermi su una panchina lungo la Senna, poco distante da dove
avevo l’albergo. Non conoscendo il francese, mi limitai ad osservare la foto
che ritraeva un Saul più giovane in una posa profetica: stringeva una penna nel
pugno come fosse un coltello e nell’altra mano teneva un foglio, pronto per
essere… assassinato!
Come ho detto non parlo francese ma il titolo che accompagnava la foto
era facile da tradurre:
L’ECRIVAIN BARTEZZAGHI, CREATEUR DE “ULCERE”, EST MORT
Sorrisi per l’ironia del titolo e
della foto. Mi alzai, appallottolai il giornale e lo gettai in un cestino.
Mentre mi dirigevo verso est, costeggiando la Senna, per andare in albergo a rifare le valigie,
dissi fra me e me:
“Solo io conosco il Pittore.”
Il giorno dopo avevo l’aereo per tornare a casa, ma non tornai a casa.
Quello che ho fatto dopo essere stato a Parigi andrebbe inserito dal capitolo 33 in poi, ma il capitolo 33
non c’è!, perché, credetemi sulla parola, tutto ciò che viene dopo è
indiscutibilmente un’altra storia.
RINGRAZIAMENTI
Un sincero grazie a tutte queste
persone, per aver contribuito direttamente o indirettamente a liberarmi l’anima
esulcerando il corpo: R. Bertocchi, F. Aglieri, Oreste F., don Oreste B., il
signor Gardini, Elena G., Tom McNamara, Giampiero Dellanima, V. Baldi, E.
Corrente, Michele B., P. Bellicapelli e W. Roscio della GdF di Vasto (CH),
Barbara S. Per altri motivi rigranzio invece: Alberto Lanzoni, Paolo W., Massimo
Bonazzi, Nicola Rizzoli, il Dottore, mamma, papà, Giorgia, Giulia e tutte le
persone care che non sono più vive fisicamente. Ah, dimenticavo: grazie anche a
quell’anonimo che scrisse su una panchina “La vita è bella. E’ il mondo degli
uomini che fa schifo.”